Campo Nomadi

Secondo il Corano è impossibile arrivare a una definizione di Dio che lo contenga nella sua essenza. Ciò che resta è cercare una parola, necessariamente incompleta, che ne indichi una parte e che ne mostri un riflesso della realtà. I 99 nomi di Allah rappresentano quindi il tentativo umano, limitato e parziale, di codificare una realtà divina nella sua pienezza.

Nella nostra esperienza quotidiana sono molteplici le realtà, divine e umane, che rientrano nella categoria dell’indefinibile. Tra queste troviamo quella discussa e contrastata del “campo nomadi”, che nominiamo in maniera diversa a seconda dell’aspetto che di esso vogliamo sottolineare. Il “campo nomadi” è all’interno della visione simbolica del margine, esiste perché esiste un confine, fisico e mentale, che lo circoscrive, rappresentando uno strappo invisibile del tessuto urbano, una ferita aperta nella periferia delle nostre città. Giuridicamente è una zona grigia, un’enclave del non diritto dentro un quadro giuridico nel quale emerge come un buco nero. E’ progettato e gestito in nome della legalità, ma dalla legalità si allontana per i diritti che al suo interno vengono violati; è transitorio, ma poi si trasforma in permanente; è un camping attrezzato, dove però mancano i servizi essenziali; è un’area per concentrare gli “zingari”, ma poi al suo interno scopriamo esserci cittadini italiani.

Per tale ragione sono molti e inutili i tentativi degli amministratori di inchiodarlo ad una parola istituzionalmente riconosciuta adeguata. Ne ho individuate almeno venticinque; venticinque modalità con cui, da nord a sud, gli amministratori locali hanno cercato di dare nome a qualcosa di istituzionalmente sfuggente.

Il “campo nomadi” di Collegno, Vicenza e Barletta, altro non è che il “campo nomadi di sosta prolungata” di Tortona. A Cosenza l’insediamento sgomberato a Vagli Lise è stato nominato per anni dagli amministratori con un nome politicamente corretto: “campo rom”. Al di là della tipologia molte amministrazioni hanno ancorato il “campo” alla romantica visione del viaggio. Sul territorio comunale di Arezzo insiste un “campo di transito per popolazioni nomadi”, che a Torino diventa “area sosta per nomadi” e nella Provincia Autonoma di Bolzano “villaggio per nomadi”. Il medesimo luogo viene chiamato a Castelfranco “micro-area sosta provvisoria per nomadi”, a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, “area destinata alla popolazione nomade”, “area sosta per comunità di nomadi” a San Lazzaro di Savena e, a Verona, “area sosta attrezzata per nomadi/sinti”.

Alcuni Comuni hanno preferito sostituire il termine “campo” con quello più ibrido di “area” e quindi i rom della Bologna vivono in “microaree”. A Seriate una famiglia rom vive in una “microarea permanente” ideata da una giunta di centro-destra che per quella di centro-sinistra di Modena diventa più semplicemente “area sosta”, “area di transito” in alcuni Comuni dell’Emilia Romagna, per trasformarsi in “area di transito attrezzata per la sosta temporanea” nella maggioranza dei comuni padani.

Le macro definizioni restano quelle di “campo” – che a Roma può essere “tollerato” o “non attrezzato”, “consolidato” a Milano” e di “sosta” a Lecce – o di “villaggio”. Questo termine, particolarmente bucolico è diffuso a macchia di leopardo sul territorio italiano. Nelle delibere romane si parla di “villaggio della solidarietà” (con giunte di sinistra) o di “villaggio attrezzato (con giunte di destra) mentre a Torino, quando si costruì l’insediamento di via Germagnano nel 2004 il Comune parlò ambiziosamente di “villaggio residenziale”.

La fantasia degli amministratori trentini è ferma a “villaggio sinti e rom” mentre in Toscana, dove ci si batte il superamento, si è arrivati alla presenza di “micro villaggi”. A Nicastro, in Calabria, c’è un insediamento riservato a cittadini rom italiani presenti in Italia di cinque secoli. Sembra comprensibile che per loro il Comune abbia auto la lungimiranza di costruire un “villaggio di prefabbricati”!

Dietro questi venticinque nomi, tuttavia, si nasconde un’unica realtà. Quella del ghetto etnico racchiuso all’interno di una recinzione metallica che marca il confine visibile tra chi abita l’insediamento e chi vive al di fuori. Quella di una vergogna che è tutta italiana e che non troviamo neanche il coraggio di chiamare per quello che è.

Articolo Precedente

Utero in affitto: quando la libertà viene confusa con liberalizzazione

next
Articolo Successivo

City Access Award 2016, vince Milano. Prima volta per una città italiana. “Ma non bisogna fermarsi”

next