Trenta anni di carcere al “principe del narcotraffico”. Il Tribunale di Locri ha condannato il broker della cocaina Roberto Pannunzi, conosciuto con il soprannome di “Bebé” e accusato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Si è concluso così lo stralcio del processo “Igres” con i giudici che hanno accolto le richieste del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri e del sostituto della Dda Simona Ferraiuolo. Un processo nato da un’inchiesta che ha consentito di svelare i rapporti tra le cosche calabresi e quelle siciliane in nome degli affari con la cocaina. Guadagni illeciti enormi grazie a un traffico messo in piedi da Roberto Pannunzi e gestito da un sodalizio criminale composto da alcuni soggetti appartenenti alle famiglie mafiose Trimboli–Marando–Barbaro che utilizzavano spesso utenze telefoniche pubbliche per mantenere contatti diretti coi narcos sudamericani.

La condanna a Pannunzi rappresenta un colpo durissimo alle cosche della Locride dopo quello di due anni fa quando, nel luglio 2013, il “Pablo Escobar italiano” è stato arrestato a Bogotà ed estradato subito in Italia. Era in cima alla lista dei latitanti a cui la Procura Distrettuale antimafia di Reggio Calabria stava dando la caccia. Soprattutto dopo le due fughe impensabili dalle cliniche romane dove era stato ricoverato per problemi al cuore. Proprio la sua capacità a evadere dal sistema giudiziario italiano aveva consentito, due volte in 11 anni, a Roberto Pannunzi di prendersi beffa di chi avrebbe dovuto garantirlo alla giustizia. Anche per questo Bebé era diventato una “leggenda” negli ambienti criminali non solo calabresi per i quali rappresentava una garanzia di efficienza quando si parlava di cocaina.

Era capace di organizzare un carico anche di 3 tonnellate dalla Colombia all’Europa, curando ogni minimo particolare perché tutto filasse liscio. Non è la prima volta che Roberto Pannunzi rimedia una sentenza esemplare per essere il broker della ‘ndrangheta. Nel 1993, infatti, sempre il Tribunale di Locri lo aveva condannato a 22 anni di carcere, poi confermate sostanzialmente dalla Corte d’Appello di Reggio. Nel 1994 è stato arrestato a Medellin, in Colombia, e dopo un anno è stato estradato in Italia. La sua detenzione è durata appena 3 anni. Grazie a una certificazione medica che attestava disturbi cardiaci, nel 1998 Roberto Pannunzi aveva ottenuto dal Tribunale di Sorveglianza di Roma una sospensione della pena per sei mesi.

Il giorno dopo il “Pablo Escobar italiano” è già in Sudamerica a organizzare la prossima spedizione di cocaina per conto delle cosche di Platì e Gioiosa Jonica. Aveva ripreso, quindi la sua vita da trafficante, organizzando pure un maxi trasporto fino al Pireo in Grecia. Arrestato di nuovo nel 2004 in Spagna, il 15 marzo 2010, sempre a causa dei paventati problemi cardiaci, Roberto Pannunzi ha ottenuto (questa volta dal Tribunale di sorveglianza di Bologna) gli arresti domiciliari in una clinica di Roma, “Villa Sandra”, dove si era ricoverato per eseguire alcuni accertamenti per “cardiopatia ischemica post infarto”. Stesso copione: il “principe del narcotraffico” era già in volo per Sudamerica quando la guardia di finanza si è presentata in clinica per controllare il detenuto ai domiciliari. Pannunzi è riapparso tre anni dopo a Bogotà dove è stato trovato in possesso di una carta di identità venezuelana a nome Silvano Martino. Adesso ha 30 anni da scontare in carcere. Problemi di cuore permettendo.

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