Mai un consiglio d’amministrazione di Veneto Banca era durato tanto. E sì che nell’ultimo anno e mezzo a Montebelluna ne sono successe di tutti i colori: dalle ispezioni delle autorità di vigilanza sono emersi i conti taroccati della gestione di Vincenzo Consoli; la procura della Repubblica ha avviato un’inchiesta penale tutt’ora in corso; sotto l’egida degli ispettori della Bce è stata effettuata una radicale pulizia dei bilanci che ha portato a svalutazioni, accantonamenti e perdite miliardarie; il valore delle azioni è stato tagliato del 25% provocando la rabbia dei piccoli azionisti intervenuti all’assemblea del 18 aprile scorso; è stata avviata la trasformazione in spa e in seguito verrà varato un nuovo aumento di capitale (il secondo in due anni) e avviato l’iter per la quotazione in Borsa.

Nessuno di questi drammatici avvenimenti, però, è stato così sofferto come la decisione che il consiglio ha dovuto assumere il 2 dicembre: stabilire il prezzo di recesso per i soci che non intendono aderire alla trasformazione da banca cooperativa a società per azioni. Detto così sembra poco, in realtà occorre ricordare che Veneto Banca – pur essendo uno dei maggiori istituti di credito italiani – non è quotata in Borsa e che da anni i soci sono impossibilitati a vendere le loro azioni perché ovviamente nessuno le vuole acquistare, tantomeno ai prezzi di fantascienza proposti dal consiglio d’amministrazione e ratificati di anno in anno dalle assemblee degli azionisti. Il problema di fissare un prezzo di recesso non è tanto e non è solo quello di dare un valore, ancora una volta virtuale, a una banca i cui attivi e il cui patrimonio sono stati drasticamente ridimensionati, ma è soprattutto quello di spiegare ai migliaia di azionisti che premono per vendere pur di rientrare in possesso di almeno una parte del capitale investito, che quel prezzo – per quanto basso – non potrà mai essere pagato.

E’ questo l’effetto della legge varata dal governo Renzi che obbliga le dieci maggiori banche popolari italiane a trasformarsi in spa: la Banca d’Italia infatti può limitare il diritto di recesso dei soci, “anche in deroga a norme di legge”, se ciò è necessario per evitare una riduzione del capitale sociale al di sotto dei requisiti patrimoniali stabiliti dalla vigilanza. Veneto Banca, così come la Popolare di Vicenza, sono già ampiamente al di sotto di quei requisiti e dunque è fatto divieto alle due banche di liquidare con mezzi propri i soci che intendessero avvalersi del diritto (soppresso ad libitum) di recesso.

Ciò detto, si capisce meglio come mai il consiglio di amministrazione convocato per le 10 del mattino del 2 dicembre si sia sciolto solo dopo le 23. Il contenuto del comunicato è da shock: ai fini del recesso le azioni sono state valutate 7,3 euro contro i 30,50 euro fissati dall’assemblea di aprile, vale a dire il 76% in meno. Tenendo conto del fatto che il prezzo di 30,50 euro rappresentava già un taglio di oltre il 22% rispetto ai 39,50 euro degli anni precedenti, la perdita per i soci si aggira intorno all’81,5%. Un’enormità, ma non è detto che sia finita perché bisognerà vedere come la Borsa valuterà l’istituto di Montebelluna, che peraltro deve varare una nuova ricapitalizzazione da un miliardo di euro.

Per molte persone che nella banca avevano creduto investendo i risparmi di una vita si sta consumando un vero dramma, ma – al di là delle dichiarazioni di rito – verranno con ogni probabilità lasciati soli da quella politica che in modo bipartisan aveva pubblicamente sostenuto Consoli negli anni passati. Quella stessa politica che, a crisi conclamata e alla vigilia delle elezioni regionali in Veneto, si era ben guardata dal presentarsi all’assemblea di aprile, la prima assise dei soci che ha visto la presenza di un imponente dispositivo di sicurezza. All’epoca le contestazioni – fortunatamente solo verbali – ci furono, ma cosa potrà accadere di qui al 19 dicembre a fronte di azionisti che vedono svalutare il loro capitale dell’81,5% e che non possono nemmeno ottenere quel poco perché per loro, in nome della “stabilità”, anche il diritto è stato sospeso? A parte sperare che la legge che impone la trasformazione delle banche popolari in spa venga giudicata incostituzionale, a questi risparmiatori resta poco altro, tanto più che la ricapitalizzazione di Veneto Banca è ormai imminente e se non vogliono o non possono investire altri soldi nella banca, le loro quote si svaluteranno ulteriormente.

Certo si tratta dell’ennesimo formidabile colpo assestato al pubblico risparmio, dopo il gigantesco write-off (circa 2 miliardi di euro) ai danni di azionisti e obbligazionisti di Banca delle Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti. E non si tratterà certo dell’ultimo: a stretto giro si arriverà al redde rationem anche sulla Popolare di Vicenza. Tutto ciò rischia di avere conseguenze molto più durature e molto più pesanti sulle famiglie e sull’economia italiana della crescita da zero virgola inferiore alle previsioni registrata dal Pil quest’anno.

Nel corso di questa lunga e sofferta giornata, il consiglio d’amministrazione di Veneto Banca ha anche cooptato il professor Beniamino Quintieri e ha nominato alla vicepresidenza dell’istituto la consigliera Cristina Rossello. Scelte ampiamente preannunciate nei giorni scorsi. In particolare, la nomina dell’avvocato Rossello è stata giustificata con “l’attenzione riservata da Veneto Banca alla valorizzazione delle competenze e della componente femminile in seno agli organi amministrativi e manageriali dell’istituto”. La vicepresidente è consigliere d’amministrazione dal 2014 e ricopriva già la carica di presidente del Comitato controllo interno e rischi, di presidente del Comitato nomine e di membro del Comitato strategico.

Una donna forte, insomma, come testimonia la sua lunga carriera professionale che l’ha portata a ricoprire incarichi di grande prestigio, compreso quello di segretario del Patto di sindacato di Mediobanca, incarico che ha ricoperto per ben 15 anni. Indimenticabile il ruolo da protagonista che ha svolto nella vicenda del “papello” firmato dall’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel e da lei custodito in cassaforte (senza comunicarlo alla Consob) a suggello dell’accordo con cui Nagel si impegnava a riconoscere ai Ligresti 45 milioni più altri benefici per l’uscita dal gruppo Fonsai. Ancora più indimenticabili le parole pronunciate dall’avvocato Rossello al cospetto del pm Luigi Orsi: dopo aver tentato inutilmente di appellarsi al segreto professionale e a fronte del pubblico ministero che le intima di “rispondere e dire la verità, e non nascondere nulla di ciò che sa perché altrimenti commette un reato”. “Di reticenza?” si informa l’avvocato. “Diciamo di false dichiarazioni al pubblico ministero”, le spiega Orsi ricordando che si tratta di un reato che è punito da 1 a 5 anni, “non so se Lei fa le valutazioni sulla base di quanto grave sia il reato…”.

Insomma, per la vicepresidenza Veneto Banca ha scelto un’ottima professionista, ma non esattamente una campionessa in fatto di trasparenza. E a giudicare dalla complessità della situazione, dagli interessi confliggenti, dai danni causati a migliaia di famiglie, da un’inchiesta penale che sembra procedere straordinariamente a rilento, dio solo sa quanto ci sarebbe invece bisogno di trasparenza a Montebelluna e dintorni.

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