Carlo d'inghilterra

Domande concordate e pre-approvate. Controllo sulle immagini, sui tagli e sul montaggio. E se il risultato finale non piace, il potere di vietare la messa in onda dell’intervista. Si chiama censura. Ed è quella che il principe Carlo ha imposto alla stampa.
Il 
principe Carlo ha messo queste e altre condizioni per parlare con lui, in un contratto lungo 15 pagine che i giornalisti devono firmare e dove tutto è stabilito nei minimi dettagli. Il caso è scoppiato a Parigi, dove il canale televisivo britannico Channel Four ha annullato l’intervista prevista con il principe ambientalista, che figura tra gli speaker della Conferenza sul clima. Non si aspettavano condizioni del genere. E non le hanno accettate, “anche per rispetto agli altri personaggi di spicco intervistati in altre occasioni”, che si sono presentati di fronte alle telecamere e hanno risposto alle domande dei giornalisti senza nessun accordo. 

Lo racconta l’Independent, che parla di censura in stile nordcoreano. Ma non siamo nella patria di Kim Jong, né in Cina o in Turchia, dove i giornalisti scomodi finiscono in galera. Siamo nella liberale Gran Bretagna, patria della libertà di informazione, dove addirittura esiste un Freedom of Information Act, il cosiddetto Foia, grazie al quale le istituzioni pubbliche sono tenute a rispondere a qualunque domanda, posta dai cittadini o dai media.

Di recente, grazie a una battaglia lunga 10 anni condotta dal quotidiano Guardian proprio in nome del Foia, la Casa reale è stata costretta a rendere pubbliche le imbarazzanti lettere indirizzate dal principe Carlo a vari parlamentari, dove si dimostrava che il principe voleva influenzare la politica inglese. Le note erano state secretate da Clarence House (la residenza del principe) che aveva opposto il segreto di Stato. Ma, anche in quel caso, non è stato possibile mettere il bavaglio alla stampa. Neppure all’erede al trono britannico, il figlio della regina Elisabetta, è stato permesso di silenziare la verità. Si capisce quindi come questa nuova e goffa forma di censura sia considerata uno scandalo.

Ora, capisco che in Italia una storia del genere forse non è neppure una notizia. I nostri politici sono talmente abituati a scegliersi gli intervistatori e a evitare le domande scomode, che non hanno neppure bisogno di un contratto del genere. Spesso sono i giornalisti stessi che si autocensurano, per non dispiacere al potente e non avere grane con il proprio editore. Sennò sono gli addetti stampa e i portavoce che chiamano i direttori per manifestare il gradimento o meno di un giornalista.

Per non parlare della Rai, dove non c’è bisogno di contratti preventivi né di altri interventi, perché sono i politici a piazzare direttamente i propri giornalisti. E non sembra una cosa così grave, probabilmente, in un Paese dove il presidente del Consiglio (in questo caso è stato
Renzi, ma prima di lui Berlusconi, e dopo di lui chissà chi altro, perché i premier cambiano ma Vespa rimane) presenta il libro di uno dei giornalisti più influenti della tv di Stato. Che bisogno c’è di firmare un contratto preventivo per evitare domande scomode? Pensate che uno come
Vespa potrebbe mai fare una domanda scomoda al primo ministro in carica?

Invece in Gran Bretagna, il caso diventa uno scandalo. E i giornalisti televisivi hanno tirato in ballo addirittura il Codice di condotta delle trasmissioni. E cioè, se l’esistenza stessa di un contratto metta a rischio un reporter di essere in violazione dell’Ofcom Broadcasting Code, che vigila sull’indipendenza editoriale e sulla trasparenza.

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