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Andavamo così bene: poi qualcosa si è rotto…
Le ragioni sono tante: al massimo penso di poterne identificare solo alcune: ma già questo basterebbe per aiutarci a capire. Perché se cominciamo a ‘capire’, allora possiamo conciare a tirare le prime fila del discorso.
Intanto cominciamo col dire che per il nostro Paese l’era industriale è cominciata con almeno 150 anni di ritardo. Ancora durante il ventennio fascista si diceva che l’Italia era una nazione ‘rurale’, fatta di contadini in larga prevalenza. Pochissime materie prime, l’energia a base di legna e poco carbone.

Nel primo ottocento si erano formate alcune zone a tecnologia (per allora) molto evoluta: Napoli (treni a Casarsa) e a Genova (Ansaldo). Cresce l’Italia tessile e cantieristica, il resto stenta ad affermarsi: la produzione di acciaio avviene ancora con metodi un po’ etruschi, del ’basso forno’ o al massimo da Martin-Siemens, quando i tedeschi da decenni avevano il processo Thomas (convertitori ad altissima produttività).

Forte il latifondismo (un’economia ‘pigra’, assolutamente non progressista), scarsa la concentrazione di capitali necessari per grandi imprese. La svolta industriale avviene con l’impegno fortissimo del ‘triangolo industriale’ (Milano-Torino-Genova) nella produzione bellica. Fiat, Falck, Pirelli, Redaelli: queste erano al top della tecnologia di allora in Italia, ma certamente un poco arretrate rispetto alle tecnologie europee già operanti.

Paradossalmente la spinta verso la crescita tecnologica industriale avviene sotto il fascismo: paradossalmente perché Mussolini continuava a predicare un’Italia ‘rurale’ che doveva innanzitutto cercare di risolvere il problema dell’autosufficienza alimentare.
La tremenda crisi del ‘29, giunta in Italia negli anni ’30, spinge Mussolini a capire che doveva avviare un ciclo di industrializzazione e intuisce che in Italia non esistono né ‘capitali privati’ né ‘imprenditori adeguati’ per l’avvio di una industria di rango e a tecnologia superiore autonoma. In quel momento ha un’intuizione di alto respiro (io sono un profondo antifascista, ma non sono un ipocrita e riconosco a Mussolini ciò che di positivo ha fatto e ha cercato di fare): chiama due noti ‘antifascisti’ dell’epoca – l’ingegnere Beneduce e il Dottor Menichella – e dà loro l’incarico di creare l’Iri (Istituto Ricostruzione Industriale), assicurando il sostegno di capitali pubblici. Da qui inizia il cammino italiano che porterà il Paese a impegni industriali sempre più significativi, fino a diventare – da assoluto importatore – un Paese esportatore perfino di prodotti siderurgici, secondo produttore europeo (dopo la Germania). Anche l’industria privata cresce e fruisce del personale di livello formato inizialmente nell’Iri. Per molti anni l’Italia sarà il primo produttore automobilistico d’Europa.

Il grande, fondamentale, fenomeno strutturale che si verifica con questo approccio mussoliniano è il crearsi di una popolazione numerosa di personaggi a tecnologia alta ma anche di ottimi personaggi a media tecnologia ‘applicativa’: questi saranno la spina dorsale tecnologica delle cosiddette Pmi.

Iniziò un processo industriale che io chiamo ‘per gemmazione’ in cui a una sufficiente (e per allora importante) preparazione tecnica si sposava un atteggiamento coraggioso e imprenditoriale: il ‘capetto’ della fabbrica di torni di Bologna si metteva in proprio chiedendo al suo precedente ‘padrone’ di poter lavorare per lui, facendo sempre torni, fino a che poteva diventare autonomo anche come mercato. La massima dinamica di sviluppo in questo senso si ebbe nell’area piemontese, lombarda, emiliana, ma altri centri crebbero anche se non in modo uniforme nel Paese. Crebbe la ricchezza nelle famiglie, crebbero il potere d’acquisto, i consumi e l’offerta – ovvia – di lavoro. Perché questo fu possibile, oltre al fatto della nuova ‘popolazione tecnologica’? Forse che lo spirito imprenditoriale era una caratteristica insita nel nostro Dna? Personalmente non credo: e comunque non sarebbe dimostrabile.

Noi tutti, a partire dal Presidente degli Stati Uniti in giù, che lo vogliamo o no viviamo all’interno di ‘grandi giochi’, che passano sulla testa di ciascun bipede del Pianeta e il ‘grande gioco’ che rese possibile la nostra evoluzione (ma non solo la nostra) fu il seguente: dall’inizio dell’era industriale (1700) e fino a circa il termine del 1900, scontando l’esistenza di alternanze congiunturali, la realtà vera era la seguente: la ‘domanda’ di beni e/o servizi è sempre stata superiore all’offerta di beni e/o servizi. Questo ha determinato un fenomeno in ricaduta importantissimo: che il ‘prezzo’ dei prodotti lo faceva, in concreto, il produttore dei medesimi e il consumatore doveva accettare i livelli di prezzo del mercato. I quali, nella buona sostanza, perdonavano a usura le grandi inefficienze gestionali di aziende sorte senza una preparazione economica adeguata o minimale: noi le abbiamo chiamate Pmi.

In questo quadro, il problema era ‘produrre’ e i nostri imprenditori (spesso apprendisti-stregoni) questo impararono a fare, trascurando in concreto due aspetti di fondo dell’azione imprenditoriale: quello del ‘vendere’ e quello della ‘finanza aziendale’. E, se queste mie affermazioni sembrano audaci e azzardate, faccio appello alla mia esperienza diretta di quasi vent’anni di sostegno agli imprenditori Pmi, con 26 aziende assistite di cui molte ‘salvate’.

Realtà che viene in emersione violenta (sì, violenta) quando cambia lo scenario dei ‘grandi giochi’, con l’arrivo sulla scena di nuovi giganti dell’economia come Cina, India, Russia, Est Europa. Il rapporto tra ‘domanda’ e ‘offerta’ si capovolge e il problema cambia: non è più quello di ‘produrre’ (dove peraltro cresce la domanda di ‘quality’ e di ‘service’ dei prodotti), ma, al contrario, quello di ‘vendere’. In questo senso la nostra struttura industriale ha accusato un colpo fortissimo: che lo si voglia credere o no, siamo fortemente arretrati.

‘Vendere’ da noi è un unico termine, nel mondo anglosassone, invece, usano due parole: ‘marketing’ e ‘selling’.
In questo dominio economico non abbiamo – se non da poco tempo e in alcune università – cominciato a preparare tecnici di ‘marketing’. Motivo per cui si è molto diffuso il concetto per il quale si ‘vende’, anche senza fare del ‘marketing’.
Possiamo adesso domandarci perché abbiamo perso terreno negli scambi internazionali?
Proprio per il ‘costo del lavoro’? O forse per qualche altra ragione più profonda? Possiamo prescindere da queste considerazioni per cercare di immaginare un ‘progetto di politica economica’ per il manifatturiero veramente innovativo?

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