Nonostante le riforme degli ultimi anni, servono subito ulteriori sforzi in futuro per far sì che il sistema pensionistico italiano resti sostenibile. Oggi infatti costa ancora il doppio rispetto alla media dei Paesi presi in esame. E’ quanto rilevato dall’Ocse nel rapporto Pensions at a glance 2015. Non solo. A sentire l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, la sentenza della Corte Costituzionale sul blocco della perequazione degli assegni oltre tre volte il minimo e i rimborsi parziali decisi dal governo “avranno un impatto sostanziale sulla spesa pubblica“. Più in generale, secondo l’Ocse, al capitolo pensioni lo Stato destina una fetta di risorse molto larga. Soprattutto se confrontata con quella degli altri Paesi dell’area.

La spesa pubblica per la previdenza in Italia tra 2010 e 2015 è stata del 15,7% del Pil, un livello quasi doppio rispetto alla media Ocse (che si attesta al 8,4% del Pil) e il più alto dopo la Grecia tra i Paesi dell’organizzazione. Le riforme, a partire dal passaggio al sistema contributivo, permetteranno di ridurre la spesa di circa due punti percentuali di Pil entro il 2060. Ma, “anche se la normale età pensionabile raggiungerà i 67 anni nel 2019 sia per l’uomini che per le donne e aumenterà automaticamente in linea con la speranza di vita a 65 anni di età dopo il 2018, la sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico richiede ulteriori sforzi negli anni a venire. Nel breve periodo ulteriori risorse sono necessarie per ridurre al minimo l’impatto della recente sentenza della Corte Costituzionale. Nel medio e lungo periodo è necessario stimolare la partecipazione dei lavoratori anziani: ad oggi, l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro rimane la quarta più bassa dell’Ocse e il tasso di occupazione per i lavoratori di età tra i 60 e i 64 anni è pari a circa il 26%, contro il 45% in media dell’Ocse. Eppure molti pensionati oggi ricevono prestazioni pensionistiche relativamente generose nonostante un basso livello di contributi versati”. Infatti il tasso di sostituzione netto delle pensioni in media in Italia rispetto al salario medio è pari al 79,7%, di molto superiore alla media Ocse (63%).

Quanto ai costi che pesano sulle buste paga, in Italia i contributi previdenziali sul lavoro dipendente ammontano al 33% della retribuzione (23,81% a carico dell’impresa e 9,19% sul lavoratore), il livello massimo dei paesi Ocse. Subito dietro la Svizzera, con il 26,6%. In Finlandia sono al 24,8% in Francia al 21,2%.

“Circa metà dei paesi Ocse hanno preso provvedimenti per migliorare la sostenibilità finanziaria dei propri sistemi pensionistici nel corso degli ultimi due anni – si legge ancora nello studio – Nonostante gli stretti vincoli di bilancio, sono stati compiuti sforzi per migliorare l’adeguatezza dei redditi pensionistici per i gruppi più vulnerabili. L’obiettivo principale delle recenti riforme è stato quello di ritardare il momento del pensionamento innalzando l’età pensionabile prevista dalla legge, rendendo più difficile il prepensionamento e aumentando gli incentivi per lavorare più a lungo. Questi cambiamenti potrebbero avere complessi effetti distributivi, poiché la capacità di lavoro in età più avanzate e la speranza di vita possono variare in funzione delle caratteristiche socio-economiche individuali”. In particolare in Italia negli ultimi 10 anni, grazie alle riforme del sistema previdenziale, il tasso di occupazione degli italiani tra i 55 e i 64 anni è cresciuto di 15 punti passando dal 31% al 46% ma resta ancora molto inferiore a quello della media Ocse (57% nel 2014). L’organizzazione, poi, ha detto la sua sugli effetti del Jobs Act, che “affronta alcune criticità del mercato del lavoro” e “potrà anche migliorare la stabilità delle carriere e le prospettive di pensione dei lavoratori più vulnerabili”. Secondo l’Ocse la nuova tipologia contrattuale a tutele crescenti “può contribuire a ridurre la profonda segmentazione tra contratti temporanei e spesso precari e quelli a durata indefinita”.

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