Dopo gli attentati a Charlie Hebdo, Stefano Rodotà ci aveva detto: “Non si limiti la libertà in nome della sicurezza”. Gli abbiamo chiesto se oggi la pensa ancora così. E se qualcosa – nei giorni di sangue del Bataclan e del Mali – è cambiato. “Quel che è accaduto è un fatto senza precedenti, non solo per l’aspetto militare. C’è una novità, indubbiamente. Ma sono molto ostile alla ripetizione di vecchi slogan, altrimenti diamo risposte sbagliate. Dobbiamo sforzarci di usare la ragione e soprattutto di superare l’emotività”.

Il presidente Hollande ha usato quella parola, “guerra”. Lei cosa ne pensa?
Che andrebbe usata con estrema prudenza: capisco che abbia anche un valore simbolico e di senso comune ma, se viene usata in senso proprio, allora viene proprio a galla l’inadeguatezza delle categorie. “Guerra” nella modernità – e nella nostra Costituzione – riguarda Stati ostili tra loro, esige una dichiarazione, individua l’avversario. Se dall’altra parte c’è uno Stato, gli devo riconoscere di esserlo. Perché in Francia non fu mai dichiarato lo stato d’assedio al tempo della “guerra” d’Algeria? Proprio per non riconoscere il Fnl e i diritti dei combattenti. Ricordo la discussione ai tempi delle Br. I terrorismi nazionali di ieri non spiegano questo fenomeno, ma comunque anche allora si disse “non possiamo legittimarli dal punto di visto giuridico”.

In quell’intervista ci disse: “Il fermo di polizia contro le Br non servì a niente: servirono isolamento politico e riorganizzazione delle forze di polizia”.
Ammesso che debbano essere prese determinate misure, questo vuol dire anche dare una sorta di delega in bianco a chi dovrà attuarle? Azzerare i controlli giudiziari, impedire il controllo parlamentare? Si dice che è necessaria un’adeguata attività dei servizi di sicurezza: che fine fa il controllo parlamentare? Se sono necessari nuovi provvedimenti, questi non possono alterare gli equilibri democratici. Non è il punto di vista di un maniaco dei diritti. Abbiamo sottoscritto la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo nel 1950, che esclude la legittimità di misure che possono mettere in dubbio il carattere democratico del sistema.

Si sta mettendo in discussione cosa sarà l’Europa di domani?
La sopravvivenza della democrazia è affidata, in certe letture, all’azione militare, come molti conflitti sociali sono ridotti a questioni di ordine pubblico. Sono d’accordo con Lucio Caracciolo, quando dice: attenzione, perché l’Europa corre il rischio del suicidio morale e politico. È un compito oggi molto difficile, perché la tentazione delle parole eccessive, delle misure legislative eccessive è fortissima. Dopo lo choc dell’11 settembre, gli Stati Uniti hanno promulgato una legge terribile – il Patriot Act – ma non hanno cambiato la Costituzione: quando hanno voluto alleggerirla hanno potuto farlo con una legge ordinaria. Se in Francia verrà cambiata la Costituzione, questo non sarebbe possibile. Quel che mi ossessiona in questo momento è il bisogno di ragionare.

Renzi ha tenuto un linguaggio misurato.
È stato un atteggiamento responsabile: si poteva dire “guerra” o leggi speciali: lui non l’ha fatto. Alfano però ha detto: dovranno esserci sacrifici dal punto di vista della privacy. E lo stesso Renzi ha parlato di tecniche di riconoscimento facciale per “taggare” le persone. Qui si dovrebbe chiedere: quali restrizioni alla tutela della privacy? Con quali garanzie? Con che criterio il riconoscimento facciale? Per individuare chi? Non si possono definire così genericamente le modalità di identificazione delle persone: ci sono telecamere nelle città e banche dati a cui voglio attingere e lo faccio con un provvedimento amministrativo. Non si può fare. Bisogna discuterne seriamente in Parlamento, e non certo con una relazioncina o con qualche mozione. Discutendo il decreto antiterrorismo, grazie anche a parlamentari come Stefano Quintarelli, il Parlamento ha fatto un buon lavoro, proprio mentre in Francia approvavano una legge liberticida sull’invasione della sfera privata delle persone, che peraltro non è servita per evitare gli ultimi attentati.

Che rischi vede?
Quella che in Francia chiamano l’urbanizzazione dell’Europa. Cioè di un’Europa che si trasforma secondo la logica del primo ministro ungherese Orban, che non è solo quella dei muri e del filo spinato, ma è la logica della limitazione della libertà di manifestazione del pensiero, dell’indipendenza della magistratura, del potere di controllo della Corte costituzionale. L’Europa ha grande responsabilità perché ha accettato questa logica e ora rischia di orbanizzarsi essa stessa: ciascuno pensa di difendersi da solo, chiudendo le frontiere, tornando al nazionalismo, senza rendersi conto che l’Europa si salva solo se dsa darsi una strategia comune.

Meno raid e più politica?
L’aspetto militare senza politica ci ha portato qui. Ci sono i russi in Afghanistan? Armiamo i talebani. Bush padre aveva fermato le truppe, il figlio è arrivato a Baghdad. C’è una manifestazione a Tripoli contro Gheddafi? Sarkozy subito dice “interveniamo”. Senza una visione politica. La contrapposizione frontale all’Isis non deve dare l’impressione che tutta la tradizione occidentale dei diritti sia oggi sotto assedio e accerchiata, mentre in questi anni si è diffusa nei luoghi più diversi. Rinnovata nei suoi riferimenti a democrazia e diritti, liberata dall’esclusivismo economicista, rimane uno strumento essenziale in questa difficile lotta.

Da Il Fatto Quotidiano del 25 novembre 2015

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