Come un capoluogo di provincia di media grandezza. Come il numero degli abitanti di Benevento o Savona. Tanti sono gli italiani che nel periodo che va da giugno 2014 a giugno 2015 hanno iniziato a lavorare in Gran Bretagna. Nell’anno preso in considerazione ben 60mila connazionali hanno fatto richiesta, nel Regno Unito, del National insurance britannico, mentre si stima che nel paese abbiano ormai superato quota mezzo milione. Poco meno di una città come Genova, quasi il numero di abitanti della Basilicata. Numeri che fanno degli italiani il terzo gruppo a livello europeo in Gran Bretagna, dopo romeni e polacchi. Considerando il bassissimo livello di impiego di lavoro nero al di là della Manica, significa quindi che 60mila italiani hanno avviato un rapporto di lavoro in Gran Bretagna, perché il documento in questione in Uk è una specie di codice fiscale, necessario per poter avere un’occupazione sul territorio di sua maestà.

I dati sono dell’Ufficio nazionale di statistica (Ons) che ha sede a Londra e che si basa su cifre ufficiali in arrivo dall’Hmrc (Her Majesty’s Revenue and Customs), in pratica il fisco britannico. Ons ha così illustrato gli ultimi dati sui migranti, che vanno nella direzione opposta rispetto alle politiche del partito conservatore guidato dal premier David Cameron. Contrariamente alle promesse dei Tory, che puntavano a massimo 100mila nuovi arrivi l’anno, l’immigrazione netta nel Regno Unito nei 12 mesi considerati è stata infatti di 336mila persone, 265mila delle quali dai Paesi dell’Unione europea. I circa 30mila nuovi richiedenti asilo da Paesi in guerra o in estrema povertà, fra l’altro, hanno allarmato chi in Gran Bretagna si batte contro le attuali politiche migratorie, considerate troppo permissive, spesso ignorando il discorso di chi sostiene che l’immigrazione per un Paese come il Regno Unito sia fondamentale per l’arricchimento della società e dell’economia e per tenere il bilancio finale – soprattutto quello dei contributi al welfare – a posto e in regola. ‘Cervelli in fuga’ o meno, apportatori di benefici o meno, una cosa è certa: il Regno Unito è sempre più visto come una meta ambita, dagli europei e non solo, dove ricostruirsi una vita.

I 60mila di cui parla l’istituto di statistica potrebbero però essere solo una parte del totale, considerando che molti vanno nel Regno Unito anche per motivi di studio o di investimento oppure, ancora, semplicemente per poter spendere il loro denaro, senza quindi l’obbligo di aprire una posizione fiscale. I dati in arrivo dal consolato generale d’Italia a Londra sono altrettanto impietosi: gli iscritti all’Aire (il registro degli italiani all’estero) nel Regno Unito sono ormai oltre 260mila. Non tutti si iscrivono a questa lista, nonostante sia in teoria obbligatorio per chi risiede in un Paese straniero per più di 12 mesi, e così lo stesso Consolato stima, forse addirittura in difetto, oltre mezzo milione di italiani presenti. Di certo, le nuove iscrizioni, quindi gli arrivi certificati, sono stati negli ultimi anni circa 2mila al mese. Il 60% è composto da giovani di età compresa fra 18 e 35 anni e il 57% ha una laurea. Ragazzi e ragazze che quindi non disdegnano, in vista di una carriera futura, di andare a lavorare inizialmente in un pub, in un ristorante o in una caffetteria – primi lavori in genere per una gran parte di italiani – in attesa di una ‘svolta’. Che, però, non è detto che arrivi.

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