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Fonte: La valise diplomatique – Le Monde Diplomatique

(Traduzione a cura di Andrea D’Ambra)

Il 13 novembre una serie di sparatorie ed esplosioni ha listato a lutto Parigi e Saint-Denis, provocando la morte di 130 persone. Gli autori di questi attentati, spesso giovani francesi musulmani, hanno motivato i loro atti invocando l’intervento militare del loro Paese in Siria contro l’Organizzazione dello Stato Islamico (Isis). Due giorni dopo, Parigi ha effettuato nuovi bombardamenti contro le postazioni dell’Isis in Siria, principalmente nella “capitale” dell’organizzazione, Raqqa. E, da allora, il governo francese e l’opposizione convengono sulla necessità di moltiplicare i raid. L’urgenza di condurre sul fronte interno una “guerra” implacabile è un altro punto che li accomuna.

L’unica domanda che sembra tener banco riguarda la composizione della coalizione internazionale contro l’Isis. Con o senza la Russia? Con o senza l’Iran? Con o senza il governo siriano? La politica estera francese, la cui credibilità è stata fortemente danneggiata da una successione di ipocrisie e gaffes, sembra ora dirigersi verso un’alleanza quanto più larga possibile. Una posizione difesa anche dall’ex presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, dall’ex primo ministro François Fillon e dall’ex ministro degli esteri Alain Juppé. Fino a poco tempo fa tutti chiedevano a gran voce che Assad fosse messo fuori gioco, ora tutti vi hanno rinunciato.

Deciso in modo solitario, senza alcuna discussione pubblica, senza partecipazione se non puramente ornamentale del Parlamento, con un allineamento mediatico conforme alle abitudini del giornalismo di guerra, l’intervento militare francese solleva più di un problema.

Prima di tutto l’esistenza di una “coalizione”: questa è quanto più larga tanto gli obiettivi di guerra dei suoi membri divergono, a volte in modo radicale. Alcuni partecipanti (Russia, Iran, Hezbollah libanese, etc.) vogliono prima di tutto mantenere al potere il regime di Assad, nonostante questi sia odiato da larga parte della popolazione. Altri (Turchia e Arabia Saudita in particolare), che hanno manifestato compiacenza nei confronti dell’Isis fino a quando questa non gli si è ritorta contro, vorrebbero invece far cadere Assad. Come immaginare che questo malinteso non finisca con il far nascere nuove convulsioni nel caso di una vittoria degli alleati di circostanza contro l’Isis? Dovremo in quel caso immaginare un nuovo intervento per separare (o distruggere) alcuni fra gli ex-alleati? Le atrocità dell’Isis sono ampiamente documentate, anche dalla stessa organizzazione. Ciò nonostante questa organizzazione è stata accolta con favore in regioni sunnite dell’Iraq e della Siria i cui abitanti erano stati sfruttati o tiranneggiati da milizie sciite. Benché messi duramente alla prova dal pugno di ferro dell’organizzazione, questi abitanti non si sentono comunque liberati dai loro passati persecutori.

L’altra questione fondamentale riguarda la legittimità e l’efficacia degli interventi militari occidentali rispetto agli stessi obiettivi che si fissano. L’Isis non è che l’avatar un po’ più sanguinario di un salafismo jihadista incoraggiato dal Wahhabismo d’Arabia Saudita, una monarchia oscurantista che le capitali occidentali non hanno mai smesso di coccolare. Del resto, a meno che non si immagini che l’obiettivo momentaneo di Stati Uniti, Francia, Regno Unito, etc. non sia semplicemente quello di assicurarsi che il Medio Oriente e le monarchie oscurantiste del Golfo rimangano un mercato dinamico per le loro industrie di armi, come si può dimenticare il bilancio decisamente disastroso degli ultimi interventi militari ai quali Washington, Parigi, Londra, ecc. hanno partecipato?

Tra il 1980 e il 1988, durante la guerra tra Iran e Iraq, i paesi del Golfo e le potenze occidentali hanno largamente aiutato il regime di Saddam Hussein, sperando così di indebolire l’Iran. Obiettivo raggiunto al costo di un milione di vittime. Quindici anni dopo, nel 2003, una coalizione guidata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito (ma senza la Francia) distruggeva l’Iraq di Saddam Hussein. Il risultato è che questo paese, o ciò che ne resta, è diventato un alleato molto vicino… dell’Iran. E centinaia di migliaia di abitanti hanno perso la vita, principalmente come conseguenza degli scontri confessionali tra sunniti e sciiti. A completare il quadro disastroso c’è anche l’Isis, che controlla una parte del territorio iracheno.

Stesso scenario nel 2011, quando andando oltre il mandato di una risoluzione dell’Onu, gli occidentali hanno provocato la caduta di Gheddafi. Dicevano di farlo per ristabilire la democrazia in Libia, come se questa preoccupazione avesse già animato le scelte della loro politica estera nella regione. Oggi la Libia non è più un paese, ma un territorio dove si scontrano militarmente due governi. Serve da arsenale, da rifugio ai gruppi terroristici più diversi, tra cui l’Isis, e da fattore di destabilizzazione della regione. Sarebbe davvero sfacciato riflettere qualche secondo – o anche un po’ di più – guardando ai frutti degli ultimi interventi occidentali prima di farne partire uno nuovo, ovviamente nell’entusiasmo generale? L’anno scorso, a West Point, il presidente americano Barack Obama ammetteva: “Dalla seconda guerra mondiale, alcuni dei nostri errori più grandi non sono stati causati dall’immobilismo, ma dalla tendenza a precipitarci in avventure militari, senza pensare alle loro conseguenze”.

Come sempre, il discorso di “guerra” si accompagna a un dispositivo di sicurezza e polizia rinforzato. Sappiamo gli eccessi a cui tutto questo porta negli Stati Uniti. In Francia all’ordine del giorno c’è il ritorno dei controlli alle frontiere, la perdita della nazionalità e la modifica della Costituzione al fine, come ha recentemente spiegato il presidente della Repubblica, di “consentire alle autorità di agire contro il terrorismo di guerra”.

Ovviamente nessuno può negare la necessità di una protezione dei luoghi pubblici contro atti di terrore, tanto più dopo che gli attentati coordinati del 13 novembre hanno messo in luce dei problemi evidenti nei servizi di sicurezza. Ma questo è abbastanza per raffazzonare in tutta fretta un nuovo arsenale di restrizioni alle libertà individuali? L’attuale clima di panico e di gara al rialzo sulla sicurezza favorisce alcune soluzioni preoccupanti. Ad esempio quella di incarcerare i “sospettati” di jihadismo o di radicalizzazione, il che equivarrebbe a conferire alla polizia e all’amministrazione il diritto di fare giustizia, comprese le decisioni unilaterali riguardanti le misure restrittive della libertà.

Dopo una serie di crimini premeditati che hanno avuto come obiettivo luoghi di ritrovo e socializzazione un venerdì sera, l’emozione della popolazione francese è comprensibile. Ma i responsabili politici hanno come compito quello di riflettere sulle motivazioni dei loro avversari piuttosto che lanciarsi in spacconate nella speranza effimera di confortare la loro popolazione in preda al tremore.

Siamo ancora lontani da ciò.

 

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