Cultura

Harper Lee in Va’, metti una sentinella ribalta tutte le certezze. Atticus è un banale signorotto del Sud che pensa al quieto vivere

Il secondo libro dell'autrice di Il buio oltre la siepe intorpidisce e oscura la memoria del classico originario in un’operazione di ravvedimento che si fatica a comprendere. L'avvocato che si era preso la briga di difendere un ragazzo di colore accusato di aver violentato una ragazza bianca si rivela un burocrate che risponde ad ordini supremi senza un filo di responsabilità etica

di Davide Turrini

Bye bye Mockingbird. Stavolta Harper Lee “l’usignolo” l’ha ucciso davvero. Dopo 55 anni da uno dei più grandi successi editoriali mondiali – Il buio oltre la siepe (in originale To kill a mockingbird) – esce in libreria Va’, metti una sentinella/Go set a wachtman (Feltrinelli). Una sorta di sequel, 16 anni dopo rispetto alle vicende di Scout, Jem e Atticus Finch, figure umane di Maycomb, Alabama, nel 1938. Libro ritrovato e presunto, scritto probabilmente dalla Lee a metà anni cinquanta, prima della stesura del capolavoro del 1960, Va’, metti una sentinella è stato più chiacchierato prima dell’uscita – vista l’invalidità pressoché totale della 89enne Lee e il caos di eredi, agenti e approfittatori che l’hanno contornata nel tempo – che una volta finito tra gli scaffali delle librerie. Intanto il trapasso temporale permette un aggiornamento eticamente e civilmente a perdere che davvero non ci si sarebbe mai aspettati.

Ovvero tanto Il buio oltre la siepe mostrava la difficile e complicata affermazione di una dimessa ma sicura lotta umanitaria basilare di eguaglianza tra gli uomini, bianchi e neri nel deep south statunitense, quanto Va’, metti una sentinella ne ribalta le certezze e la comprensione universale. Il mito è stato fatto cadere dal piedistallo. Atticus Finch è un razzista. Non possiamo nemmeno definirlo uno spoiler, ma un triste ed oggettivo dato di fatto che permea l’atmosfera del sequel fin dalle prime righe, obbligatorio per chi, attonito, scorrerà le 270 pagine del nuovo libro della Lee. L’oramai settantenne e artritico papà di Jean Louis “Scout”, l’avvocato Atticus che ne Il buio oltre la siepe si era preso la briga di difendere un ragazzo di colore palesemente innocente ma accusato di aver violentato una ragazza bianca, quindi condannato a morte, è diventato, anzi meglio è sempre stato, un banalissimo e retrivo signorotto del Sud che si preoccupa prima di tutto del quieto vivere della sua comunità composta da evoluti e zotici bianchi, prima che da “negri” irresponsabili civilmente ed analfabeti.

“Allora veniamo subito al sodo. Vuoi vagonate di negri nelle nostre scuole, nelle nostre chiese e nei nostri teatri? Vuoi che facciano parte del nostro mondo?”, interpella solenne Atticus la figlia 26enne giunta a Maycomb da New York dopo qualche anno di lontananza. Basterebbe questa affermazione per mostrare come quell’uomo, immaginato come argine verso le disuguaglianze e il male del mondo, quello che fucile in mano ne Il buio oltre la siepe si metteva a difesa della prigione dove era rinchiuso il suo assistito dall’assalto della folla inferocita, sia diventato il burocrate eichmanniano che risponde ad ordini supremi senza un filo di responsabilità etica. Come se non bastasse lo scontro tra Scout emancipatasi nella Grande Mela e il parentado retrò del paesino, tra cui un certo Henry, marcantonio ferito in guerra, che le fa la corte con l’approvazione del padre, ma se possibile ancor più “maggioranza silenziosa” rispetto ad Atticus, è totale: su ogni piano del discorso sociale e nella dimensione politica.

Atticus è iscritto al Ku Klux Klan (“sì, ma per capire chi c’era sotto i cappucci bianchi”), Atticus parla di voto elettorale che non può essere concesso ai neri (“Agli occhi di Jefferson, un uomo non poteva votare solo perché era un uomo. Doveva essere anche un uomo responsabile”), Atticus che ce l’ha con l’associazione di avvocati di colore che si interessano dalla capitale dello stato dei casi di “negri” finiti in tribunale nei singoli paesini (“Beh…esigono che ci siano dei negri della giuria”). Eccoci allora tutti a stropicciarci gli occhi. A pensare che qualche particolare ci era sfuggito.

Invece no, l’effetto stordimento è voluto, costruito e rifilato come un cazzotto sul naso. Il microcosmo simbolico di quel paesino del Sud con sì, tutte le sue differenze sociali ed economiche di quella realtà, con la cameriera di colore che accudiva i bimbi, ma anche i violenti bianchi della periferia, si spappola vergognosamente in un crogiuolo di stupidaggini dello status quo, poi sconfitto inevitabilmente dalla storia. Va’, metti una sentinella offusca, intorpidisce, oscura la memoria del classico originario in un’operazione di ravvedimento che si fatica a comprendere se sia realmente sfociata dall’intelletto della stessa persona, se non in una delirante scissione schizoide in fase creativa. E non parliamo stilisticamente di prima persona sostituita da una più generica e semplificata terza (e che ritorna magicamente in prima in una periodo della penultima pagina…), ma proprio di un’anomala composizione contenutistica privata di quella ruvida dolcezza apprensiva de Il buio oltre la siepe, dell’evidenziazione comunque dell’alterità ma non del suo continuo, inusitato e greve sfottò. C’è una foto apparsa sul New York Times a corredo della recensione del libro: una mano sfoglia un piccolissimo volumetto incastonato meccanicamente dentro ad un volume più grande e sontuoso. Il primo è Va’, metti una sentinella. Il secondo è Il buio oltre la siepe.

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