Argentina punto e capo. Dopo 12 anni di “kirchnerismo” il paese volta pagina. L’esito del ballottaggio tra Daniel Scioli, il candidato della continuità, e Maurizio Macri, quello della rottura, dirà se il cambiamento sarà più o meno brusco. In ogni caso qualcosa cambierà rispetto agli otto anni di presidenza di Cristina Fenandez Kirchner che nel 2007 ha preso il posto del marito sulla poltrona più importante della Casa Rosada. Il paese non ha alternative. L’America Latina è in difficoltà, il vicino Brasile è stretto nella morsa di una doppia crisi, economica e politica.

L’economia argentina sta scivolando verso una stagnazione o blanda recessione, mentre il deficit è in aumento. Dopo 14 anni di isolamento Buenos Aires ha bisogno di recuperare un accesso ai mercati finanziari internazionali. Anche perché le riserve della banca centrale si attestano a 30 miliardi di dollari, una cifra per ora non da allarme rosso ma che si è quasi dimezzata rispetto al 2010. Alcuni mesi fa il quotidiano La Nacion ha calcolato che il nuovo governo si troverà a fronteggiare scadenze di pagamenti per circa 25 miliardi di dollari già nel 2016. Il governo ha posto alcune restrizioni sui movimenti di capitali. Il cambio ufficiale è di un dollaro per ogni 9 pesos, ma sul mercato nero gli scambi avvengono sopra i 15, con un gap di circa il 60%. Non esistono stime ufficiali attendibili sull’inflazione poiché le cifre sono “aggiustate” dal governo. Secondo rilevazioni ufficiose l’incremento annuo dei prezzi supera il 30%.

Il ritorno sui mercati è però ostacolato dal braccio di ferro in atto con la giustizia statunitense e con alcuni hedge funds, che si sono visti riconoscere il diritto al pieno rimborso dei titoli coinvolti nel default nel 2001 e acquistati a prezzi stracciati dopo la bancarotta senza aderire alle successive ristrutturazioni. Buenos Aires dovrebbe pagare a quelli che vengono chiamati “fondi buitre”, ossia avvoltoi, poco meno di un miliardo e mezzo di dollari. Per ora non hanno visto un centesimo. Il problema è che questo innescherebbe una serie di pretese analoghe da parte di tutti gli altri possessori degli stessi titoli per un esborso complessivo che viene stimato in 15-20 miliardi di dollari. Nel frattempo la giustizia Usa, competente poiché i titoli all’epoca erano stati emessi sotto la giurisdizione statunitense rendendoli così più appetibili per gli investitori, ha bloccato qualsiasi pagamento a favore dei risparmiatori che avevano accettato le ristrutturazioni dei titoli nel 2005 e 2010 e che oggi rappresentano il 93% dei bond in circolazione. Tra questi anche alcune centinaia di migliaia di italiani. Il motivo è che i giudici statunitensi hanno attribuito ai fondi che hanno vinto la causa una sorta di diritto di precedenza rispetto a qualsiasi altro creditore, esponendo al rischio di sanzioni chiunque aiuti l’Argentina ad aggirare questo vincolo.

Seppur con toni leggermente diversi, sia Scioli sia Macri hanno lasciato intendere che un accordo dovrà esserci. In teoria una vittoria del secondo dovrebbe accelerare la pratica. Macri, che ha anche promesso la rimozione dei vincoli sui movimenti di capitali e il ripristino dell’autonomia di banca centrale e istituto di statistica, si presenta come il più in sintonia con i mercati e il più gradito alla comunità finanziaria. Forse per non sembrarlo troppo ha recentemente precisato che, pur nella ricerca di un’intesa, sarà innanzitutto un energico difensore degli interessi del paese. Scioli a sua volta si è detto favorevole a un accordo purché a condizioni non punitive per l’Argentina.

Lo status di “paria dei mercati” ha consentito al paese di partecipare solo in misura ridotta all’abbuffata di dollari che ha caratterizzato i paesi emergenti dopo il 2008, quando tutti hanno approfittato dei tassi bassissimi per indebitarsi. Paradossalmente in questo momento è quasi un vantaggio. Molti paesi dell’area a cominciare dal vicino Brasile sono infatti alle prese con il deflusso di capitali che erano affluiti in abbondanza. Una fuga innescata dalle prospettive di un aumento dei tassi statunitensi ha tra l’altro l’effetto di alzare i rendimenti di tutti gli asset a stelle e strisce rendendoli più attraenti per chi investe. Buenos Aires però ha poco da gioire. A differenza di altri paesi sudamericani l’economia argentina è molto legata a quella brasiliana, verso cui esporta il 25% dei prodotti che vende all’estero. Dal Brasile inoltre il paese riceve quasi il 10% degli investimenti esteri. Non dovrebbe invece pesare troppo il calo delle quotazioni di petrolio e rame che sta invece penalizzando paesi come Venezuela e, in misura molto più contenuta, Cile. Insieme le due commodities pesano infatti soltanto per il 6% sull’export totale del paese.

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