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C’è una linea sottile che ci lega tutti. Da Parigi, Londra, Washington, Roma, Bruxelles, ed in ogni città del mondo: quella che prende forma nella paura. La stessa che unisce, e disgrega. Quella che sembra nutrire la necessità di trovare un nemico da distruggere. Quella che ha bisogno di dare a quest’ultimo una sagoma, un volto, un nome, una cultura, un Dio. E si sa, che in questi casi, prima di puntare il dito in casa nostra, lo rivolgiamo altrove.

Si sa che, il nemico, ha sempre le sembianze del diverso. Quello dalla carnagione scura. Quello dal nome che, per assonanze di suoni, per noi occidentali, risulta complicato da pronunciare. Quello che per tradizione, se uomo, ha tante mogli ed una lunga lista di prole che spesso può superare il numero di una squadra di calcio. Quello che per tradizione, se donna, gira con il capo coperto dal burka, avendo diritto ad essere solo madre e forse moglie, ma prima schiava, di uomini verso cui questa debba rinunciare alla propria individualità. Quello che chiama il proprio Dio Allah, ed il proprio testo religioso Il Corano.

Ed allora, su questa scia di luoghi comuni e pregiudizi pronti a congiungersi verso un’unica direzione che sia quella del combattere il nemico, dovremmo temere di più di due miliardi che nel mondo vantano, pressappoco, simili caratteristiche. Nel caso specifico, essendo residente in Regno Unito, il mio nemico raggiungerebbe un numero pari a più di tre milioni, considerando che in Inghilterra la seconda religione più professata sia proprio quella musulmana. Non ci sarebbe giorno in cui io non mi imbatta nei loro sguardi, non mi ci scontri sfiorando le loro spalle, non dia loro il buongiorno, non ci pranzi insieme: per le strade, al supermercato, in metropolitana, sul mio posto di lavoro. In quest’ultimo, specialmente, ne ho incontrati tanti, e con qualcuno ho iniziato a stringere amicizia. E non per capirne la diversità, né per avvalorare le mie tesi, ma perché, come accade nella vita di tutti i giorni, ci si trova con i propri simili.

Ed è per una serie di circostanze che abbia trovato loro più conformi alla mia idea di rispetto per l’altro e di educazione, di quanto non lo fossero altri. Nonostante non mangino il maiale. Nonostante qualcuno di loro indossi il burka. Nonostante preghino un Dio diverso dal mio. Nonostante io, come loro, non osservi il Ramandan.

E non alzano barriere quando al supermercato, in pausa pranzo, per dimenticanza sia capitato che abbia offerto loro un sandwich con la pancetta. Se la ridono, ripetendo che non mangiano il maiale. E se la ridono perché lo sanno che non sto anteponendo il mio Dio al loro: sono semplicemente una svampita di prima categoria. Ed ammetto che, non appena approdata su quest’isola dalla multiculturalità dilagante, parte di quei pregiudizi che sembra stiano diventando la causa primaria di uno spargimento di sangue che ha gettato tutti nello sgomento, inseguissero anche me.

Ma oggi, con maggiori consapevolezze, porgo loro le mie scuse, da essere umano che non ha solo visto o letto o ascoltato, ma anche vissuto. Perché la verità è che la multiculturalità non si insegna, non si professa soltanto per riempirsi la bocca per sembrare più buoni, e non si dosa con il contagocce per timore di poter perdere la propria individualità. Ne si può parlare solo se la si vive a stretto contatto. Non la si centellina perché la multiculturalità non può essere motivo di scontro, bensì di crescita.

Quella in cui tutti si sentono in dovere di non attribuire nessun nome ad un Dio, o di non interrogarsi su usi e costumi di un popolo differente, o di cosa dica il Corano. Quella multiculturalità che non minimizza, ma arricchisce la nostra individualità, facendoci diventare individui migliori quando abbiamo avuto il privilegio di viverla nella sua pienezza. È dunque rischioso porre titoloni in prima pagina che vadano ad etichettare un intero popolo come selvaggi, per richiamare un termine forse ancor più civile di quanto sia stato utilizzato. Perché è come se per la strage di Capaci, in prima pagina si fosse letto “siciliani mafiosi”, o per tutti gli accadimenti tra i clan camorristici “napoletani camorristi”.

Lo sappiamo, oramai da tempo, che non tutti i siciliani sono dei mafiosi, cosí come non tutti i napoletani dei camorristi. Ma i musulmani sono ancora tristemente terroristi, sulla cima più alta del pregiudizio. Quella che impone, irragionevolmente, di specificarlo a gran voce. Forse per rabbia, per tristezza, per la sete di giustizia nei confronti di vittime innocenti. Forse perché di quel popolo si sente parlare sempre in modo univoco. Forse perché non ne hanno mai conosciuto uno sul serio.

Io ho paura. Di quel terrorismo che sembri non risparmiare nessuno. Che uccide in nome di una religione. Che può nascondersi ovunque. Quello del fanatismo dissidente. Quello che deve essere raso al suolo. Ma ho anche paura dell’altra faccia del terrorismo. Quello psicologico, che rende tutti nemici, perché appartenente allo stesso ceppo, e tutti schiavi di un’idea. Quello, forse, incute anche maggior pericolo. I terroristi saranno tutti musulmani. Ma i musulmani non sono tutti terroristi.

E di questi ultimi, io non ho paura.

di Antonia Di Lorenzo. Autrice del romanzo Quando torni? disponibile in Amazon, Itunes, Kobe, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble, Lulu.com e su quest’ultimo anche in versione cartacea. Scrive di Londra anche qui, sul suo blog personale ed in inglese sulla piattaforma Readwave.

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