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L’11° arrondissement di Parigi, lì dove sta il Bataclan in queste ore teatro di nuove vicende drammatiche, è una delle zone più vivaci e vitali di Parigi. E’ il quartiere della movida parigina, del fine settimana di musica e uscite, di feste e incontri. Il Bataclan è uno dei punti di ritrovo più frequentati dai ragazzi che possono avere l’età dei miei figli, tra i teen e i trenta. Lì, in quella sala da concerti un po’ dissimulata accanto all’omonimo caffè-bistrot, passano i gruppi musicali più di moda, quelli che ancora non riempiono il Palazzo dello Sport, ma che fanno veramente tendenza. E le file interminabili di ragazzi contenuti dalle transenne fanno del Bataclan un luogo di allegria e di energia, un po’ un simbolo dello spirito libero dell’undicesimo arrondissement. La mia piccola casa parigina si trova a cinquanta metri dal Bataclan e tutti i giorni io passo lì davanti, uscendo di casa, quando per un motivo o un altro mi trovo a Parigi. Anche ieri sono passato di lì, poco prima di andare all’aeroporto per tornare in Italia nel pomeriggio, e giovedì sera eravamo a cena al bistrot Bataclan, con la mia compagna. Dunque sono scampato per caso, per un giorno, per poche ore, al disastro.

Questa è la nostra peraltro non nuova condizione: stare come d’autunno sugli alberi le foglie. Quando il disastro si è materializzato in serata nelle immagini rimandate in rete dai circuiti televisivi internazionali, l’ho vissuto con la stessa sospensione di incredulità con cui si guarda un film. Ma con una differenza essenziale. Infatti sapevo bene che era vero quello che vedevo, ma volevo credere che fosse un film (mentre al cinema il meccanismo funziona al contrario: so bene che sto vedendo un film ma faccio come se fosse vero).

Nei giorni scorsi c’era qualcosa di strano nella zona: lì vicino, a cinquecento metri dal Bataclan, c’è anche la sede di Charlie Hebdo, altro teatro di guerra all’inizio di questo sciagurato anno di terrore. Forse è per questo motivo, forse è per uno stato di allerta generale che si sente bene nel sottopelle di Parigi, ma la tensione nella zona era più alta. La polizia teneva d’occhio in forma discreta il quartiere, ma alcuni palazzi erano transennati e vigilati da camionette con agenti col mitra. Il piano “vigipirate” era già rinforzato.

C’è una guerra non dichiarata in corso, e la Francia è il paese europeo che ne è più colpito, in forma altamente simbolica. Colpire il Bataclan o lo Stade de France il venerdì sera, con il concerto e la partita in corso, è come colpire Charlie Hebdo durante la riunione di redazione. Vuol dire rendere precaria la vita di tutti. In fondo la precarietà alla quale ci siamo abituati per il lavoro, per i rapporti affettivi, per le famiglie che si fanno e si rifanno in modi sempre diversi, è invece prima di tutto questo: sentirsi provvisori nella “normalità” della vita. E’ la banalità del male la nostra nuova ossessione. Si può entrare in un cinema, in uno stadio, in un teatro da concerto, ma anche all’università o in una scuola e non uscirne vivi. Si può prendere un aereo ed essere abbattuti a mezz’aria. La morte in diretta diventa una nostra possibile condizione esistenziale.

E però, come diceva La Rochefoucauld, né il sole né la morte si possono guardare fissi.

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