“Siete pregati di allontanarvi dalla piazza per motivi di sicurezza: vi ricordiamo che oggi è vietato fare raduni”. La voce metallica della polizia all’altoparlante risuona in place de la République a Parigi. La sentono tutti, ma non si muove nessuno. La sentono quelli nelle macchine intorno, la sentono dalle case, la sentono le decine di persone che in silenzio portano fiori e candele in memoria delle vittime degli attentati che in una notte di metà novembre hanno portato, per la seconda volta in un anno, la guerra dentro la città. La sentono tutti, ma restano immobili al loro posto in silenzio. Rendono omaggio alle vittime, gente sconosciuta che ha perso la vita da innocente. “Non abbiamo paura”, recita un cartello appiccicato appena sotto la scritta in memoria della strage di Charlie Hebdo. E’ passato meno di un anno e oggi, ancora una volta, Parigi arrabbiata e nervosa esce a sfregio per le strade.

La città con le occhiaie e la faccia sbattuta ha cominciato a rompere il coprifuoco intorno alle 4 del pomeriggio. Occhi lucidi e senza parole, gli abitanti stanchi di fissare gli schermi delle tv che ripropongono sempre le stesse immagini sono andati sul posto. Quasi che non potesse essere vero, che tutto quel dolore tutto insieme e senza senso, non potesse essere esistito davvero. E una volta arrivati davanti alla sala da concerto Bataclan o al ristorante Le Petit Cambodge o al bar dove si guarda lo sport La Belle Equipe hanno trovato i segni di tutto quello che è stato, “ferite all’altezza della testa” mentre le persone sono sedute al tavolino per la cena. Una lunga serie di fori di kalashnikov contro quelle vetrine.

Quello che conta dopo la notte dell’incubo, però, sembra sia solo rialzarsi. “Anche se abbiamo paura, oggi è importante far vedere che non è così. Usciamo nelle strade come una famiglia. Volevano spaventarci, ma non ci sono riusciti”. Jennifer, da 25 anni in Francia ma originaria del Bangladesh, ha preso il metro solo per andare a vedere i luoghi dell’attentato. “Non riuscivo a capire come fosse stato possibile. Solo così posso realizzarlo”. Con lei decine di persone con candele, mazzi di fiori e messaggi. I marciapiedi davanti ai locali bersagliati dai proiettili sono campo santi. Tappeti ti candele e fiori. Ragazzi scrivono con il pennarello contro il muro: “Fuck terrorism”. Sono due quindicenni, si vergognano perché alla fine serve a poco. Ma fa parte del gioco per esorcizzare un mostro. I terroristi hanno colpito con metodo e freddezza la zona del divertimento: non solo un concerto heavy metal, ma anche i bar degli shot a 2 euro e delle partite di football guardate davanti a una birra. Luoghi di ritrovo vicino al canal Saint Martin, quello che il mondo conosce per il film su Amélie Poulain, ma che è semplicemente il punto di ritrovo più spensierato di tutta Parigi. Lì, ancora, è concesso sedersi con una bottiglia di vino e un pacchetto di patatine con i piedi a penzoloni sul canale. I colpi di arma da fuoco hanno ferito a sangue quella zona della città, quella di teste giovani con tanto futuro nelle orecchie.

“Io mi chiedo perché qui”, dice Lena studentessa universitaria che abita in fondo a Rue de Charonne. “Perché un bar qualunque dove si guardava una partita di calcio? Vogliono colpire la nostra normalità. E se non c’è più nemmeno una logica rischiamo tutti. Sono qui perché dovevamo fare qualcosa e uscire in strada è già un segnale”. Al suo fianco Tanner, Fanny e Julie. Hanno poco più di vent’anni e questa mattina avrebbero dovuto essere all’università, ma le lezioni sono state annullate. Vivono nella zona degli attentati, un quadrato che loro definiscono “joyeux”, una parola che ricorda la “felicità” e che ha il rumore di un pugno in una giornata lunga come questa. “Hanno colpito un banale venerdì sera. Prima si trattava di giornalisti che avevano deciso di esporsi per una cosa, qui invece erano persone normalissime con la loro vita. Così rischiamo tutti e ovunque”. E’ la stessa banalità di cui parla uno dei testimoni oculari che ai giornalisti non vuole dare il suo nome, salvo poi raccontare nel dettaglio la scena che porta ormai tatuata sulla faccia: “Ho visto un uomo di 30 anni sparare ad altezza della vita con tranquillità e freddezza. Si muoveva a destra e sinistra e sembrava che i colpi non dovessero fermarsi mai”. Di fronte al bar La Belle equipe, quello dove di solito al massimo volavano parole grosse per un gol sbagliato per la propria squadra, c’è una residenza per madri sole. Quando hanno sentito gli spari, sono corse nei corridoi e si sono barricate in stanza per tutta la notte. Ora guardano aggrappate ai loro pancioni la folla di curiosi che fissa la vetrina infranta. “Siamo preoccupate per i nostri figli, per il mondo che lasceremo loro in eredità”. 

Quando sono le 21, esattamente ventiquattro ore dopo gli attacchi, le strade si fanno un po’ più fredde. I bar che hanno deciso di restare aperti sono pieni: i clienti pensano a ingannare il buio ma in testa hanno solo la strada più veloce per tornare a casa. Come terremotati che aspettano la prossima scossa. Perché se ce n’è stata una seconda, potrebbe essercene pure una terza. “Dobbiamo essere superiori”, dice Marie Eline mentre a mani giunte osserva il Bataclan da dietro il cordone di sicurezza, “ma se sono capaci di colpire un gruppo di giovani che ascolta la musica, allora dobbiamo essere pronti a tutto”.

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