Ricorso respinto: Roma deve pagare. Il tribunale Ue ha sentenziato che l’Italia deve restituire più di 72 milioni di euro erogati dal Fondo europeo agricolo di garanzia (Feaga) e di quello per lo sviluppo rurale (Feasr). Il Paese infatti si è reso responsabile tra 2004 e 2009 di carenze nei controlli. A chiedere indietro i soldi era stata, nel 2013, la Commissione Ue, che aveva applicato “rettifiche finanziarie” con la motivazione appunto che la Penisola non aveva vigilato sui requisiti fissati da Bruxelles per la concessione dei fondi. Il governo italiano aveva fatto ricorso, ma i giudici lo hanno ora respinto. Con il risultato che l’Italia è condannata a restituire i fondi e coprire sia le proprie spese sia quelle sostenute dall’esecutivo Ue.

Degli oltre 72 milioni di euro, 48.095 milioni sono esclusi dal finanziamento Ue a causa di carenze nei controlli del sistema di condizionalità in Italia nel periodo 2005-2007. Il principio di condizionalità, introdotto da un regolamento del 2003, consiste nel fatto che un agricoltore beneficiario di pagamenti diretti deve rispettare sia i requisiti normativi per la gestione stabiliti dalla legislazione dell’Unione, per esempio le norme sul benessere degli animali, sia le condizioni agronomiche e ambientali stabilite dagli Stati membri. In Italia la vigilanza è mancata. Per questo i pagamenti diretti agli agricoltori in possesso dei requisiti di ammissibilità ma senza quelli previsti dal sistema di condizionalità sono stati ridotti o eliminati.

Altri 17,913 milioni sono esclusi dal finanziamento Ue a causa di gravi carenze nel sistema degli aiuti per la trasformazione degli agrumi tra il 2004 e il 2007. Nel quadro di un’indagine da parte dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf), è emerso un meccanismo generalizzato di frode nel settore in Calabria, finito anche al centro di alcune inchieste. La Commissione ha constatato gravi carenze nei controlli fisici, amministrativi e contabili.

Infine 6,35 milioni sono stati esclusi dal finanziamento Ue a causa di carenze nei parametri di riconoscimento dell’organismo pagatore della regione Basilicata (Arbea) per gli anni dal 2007 al 2009. Secondo la Commissione, c’erano pecche nella struttura organizzativa (per esempio mancavano risorse umane adeguate) e nell’attività di controllo, per cui i pagamenti effettuati dall’ente non possono essere ritenuti affidabili. La difesa dell’Italia è ritenuta del tutto insufficiente: “la ricorrente invoca la violazione di principi generali di diritto senza far valere il minimo argomento specifico a tal riguardo”, segnalano i giudici nella sentenza. 

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