Le previsioni circolate in settembre erano molto più ottimistiche della realtà: il nuovo piano di Unicredit al 2018 prevede 18.200 tagli di personale contro i 10-12mila ventilati nelle scorse settimane. Il dato, che in termini percentuali significa una decurtazione del 14% della forza lavoro del 2014, include gli effetti della vendita della controllata in Ucraina e della joint venture con Pioneer. La diminuzione degli occupati si realizzerà sia nei corporate centres (-17% sul 2014) sia nelle banche commerciali di Italia, Germania e Austria e nell’Europa Centro Orientale (-9% sul 2014). In particolare i dipendenti italiani tagliati saranno ben 6.900, 5.800 dall’area retail e 1.100 dai centri direzionali. In Germania usciranno solo 2.900 persone e in Austria 800. Negli altri Paesi dell’Europa centrale il taglio sarà invece di 1.500 dipendenti. E così nel 2018 la forza lavoro globale della banca milanese ammonterà a 110.800 posti a tempo pieno. Mentre le filiali chiuse in Italia, Germania e Austria saranno 800. Accanto ai tagli, il gruppo prevede misure di contenimento dei costi per un controvalore complessivo dei risparmi di 1,6 miliardi: i costi per il personale si ridurranno di 800 milioni e le altre spese amministrative di altri 800 milioni.

“Abbiamo approvato un piano rigoroso e serio e al tempo stesso ambizioso”, ha commentato l’amministratore delegato dell’istituto Federico Ghizzoni sostenendo che “è soprattutto realistico perché si basa su azioni che dipendono dalle nostre scelte manageriali ed è un piano totalmente autofinanziato”. Espressione non casuale che indica l’esclusione di una ricapitalizzazione dell’istituto, come poi esplicitato dal manager. Certo è che di tagli in Unicredit se ne intendono: l’emorragia di dipendenti prosegue ininterrotta dai tempi della fusione con Capitalia: a fine 2008 i lavoraori del gruppo a livello mondiale erano 174mila, di cui 77.420 in Italia, e le filiali oltre 10.200, metà delle quali nella Penisola. A distanza di sette anni, il saldo è di 47.151 posti persi, poco meno della metà in Italia. Il bilancio dei primi nove mesi del 2015 riporta infatti che i lavoratori rimasti in organico sono 126.849, mentre gli sportelli superstiti ammontano a 7.055, di cui solo 3.921 in Italia. I dipendenti della Penisola a fine 2014 erano invece 55.600, quasi 22mila in meno rispetto a fine 2008. “Dei 18.200 esuberi previsti dal piano al 2018, 6mila sono legati alle cessioni in Ucraina e di Pioneer. Dei 12.220 esuberi residui, 2.200 sono già stati effettuati in questi mesi del 2015. Tra questi ci sono 1.100 dirigenti, che erano il 3,3% dei nostri dipendenti nel 2010, e scenderanno all’1,9% a fine 2018”, ha commentato Ghizzoni.

Del resto in base al nuovo piano industriale di Unicredit – che ha un obiettivo di utile netto al 2018 di 5,3 miliardi di euro, contro i 6,6 fissati un anno fa – il parametro per misurare la solidità delle banche, il CET1 ratio fully loaded, prima della distribuzione dei dividendi, si attesterà a 12,6% nel 2018, contro l’obiettivo interno di 11,5 per cento. Questa solida base patrimoniale, spiega l’istituto, consentirà una cospicua disponibilità per la distribuzione di dividendi, pari ad una percentuale di distribuzione dell’utile del 40% in media nel triennio. Per ottenere ciò Ghizzoni ha previsto una strategia digitale che sarà supportata da 1,2 miliardi di investimenti cumulati fino al 2018 e si basa su due pilastri. Prima di tutto, un’accelerazione della trasformazione digitale della banca multicanale retail e, in secondo luogo, la costruzione del futuro modello di business digitale. E così entro il 2018 oltre il 90 % delle transazioni sarà effettuato su canali remoti. La conseguenza? Circa 1.500 filiali saranno chiuse o dotate di un “format più flessibile”. A contribuire ai tagli, poi, ci sarà “la semplificazione dei processi interni, come i processi di back-end e la trasformazione paperless”, che si tradurranno in una riduzione di 5.800 addetti. Senza contare che Unicredit ha in programma il lancio della cosiddetta “buddybank“, una banca accessibile solo da mobile a basso assorbimento di capitale e con un servizio clienti live 24/7.

Il piano poi prevede un “focus costante sull’alto potenziale di crescita del risparmio gestito UniCredit” che si ritiene possa contribuire con 2 miliardi di commissioni addizionali su un totale di commissioni pari a 9,6 miliardi nel 2018. Nell’asset management, poi, il gruppo intende far leva sulla joint venture con Santander AM e nell’asset gathering, Fineco continuerà ad aumentare la quota di “guided products” alla luce della crescente richiesta di servizi di consulenza sugli investimenti da parte della clientela. I costi a fine piano sono attesi a 12,9 miliardi, con un rapporto costi/ricavi del 50% (a fine settembre 2015 è del 63,4%). I crediti verso la clientela sono attesi a 503 miliardi, con asset ponderati per il rischio a 425 miliardi.

Intanto l’istituto ha chiuso il terzo trimestre con un utile netto di 507 milioni di euro, in calo del 29,8% sullo stesso periodo del terzo trimestre 2014. Nei nove mesi i profitti sono invece arrivati a 1,54 miliardi, il 16,1 per cento in meno dell’anno prima. Sul dato hanno inciso 400 milioni di poste straordinarie relative a oneri per rischio sistemico, la svalutazione di Ukrsotsbank e maggiori rettifiche su crediti per la conversione in euro dei crediti in franchi svizzeri in Croazia. Per l’intero esercizio “il consolidarsi della ripresa economica continuerà a supportare i risultati del gruppo nell’ultimo trimestre del 2015, assieme al continuo impegno del gruppo per il contenimento dei costi”.

L’euforia in Borsa per il piano diffuso nel primo pomeriggio di mercoledì e seguito a stretto giro dai dati di bilancio, non è durata neanche due ore: il titolo della banca milanese dopo essere salito immediatamente del 3% oltre la soglia dei 6 euro, verso le 16.00 ha invertito la rotta e ha chiuso a 5,91 euro (-0,08%).

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