L’impressione è quella di una serie. Graziano Stacchio è stato il primo. Usò il fucile per freddare un rapinatore che stava cercando di entrare in una gioielleria. Era febbraio di quest’anno. Oggi imperversa davanti alle telecamere con la consumata naturalezza di un politico quel Francesco Sicignano che il 20 ottobre a Vaprio d’Adda ha ucciso un ladro e che ora si fa paladino del diritto a farsi giustizia.

Tra i due la sentenza a quell’Ermes Mattielli che sparò sedici colpi d’arma da fuoco ai due giovani nomadi che si erano introdotti nel suo magazzino di ferramenta. Tentato omicidio, perché il Mattielli pare avesse crivellato di colpi uno dei due ragazzi che era già a terra, reso incapace di muoversi dal primo colpo di arma.

Nell’ordinamento giuridico italiano la legittima difesa è una cosiddetta “causa di giustificazione”, cioè una circostanza in cui chi si difende usando la forza commette un reato ma le condizioni sono considerate tali per cui non si debba applicare una sanzione. Questo finché esiste una proporzione fra difesa e offesa, che peraltro che nei casi di reazione avvenuta durante una violazione del proprio domicilio e in presenza di un pericolo di aggressione fisica, c’è quasi sempre. Quasi.

Si dice però di questi tempi, Sicignano docet, che uno non può mica star lì a calibrare con il bilancino, perché, ci dice la psicoterapeuta Roberta Cacioppo che “un accadimento come un furto in casa pone di fronte a temi profondi, come quello del limite, della violazione (della proprietà, o dell’incolumità), dell’incontrollabilità di certe reazioni, della colpa, della rabbia. L’altra persona, l’estraneo: un rapinatore che entra nella nostra proprietà privata è un nemico. In un caso del genere avviene qualcosa che lo psicoanalista Erikson chiama “pseudo-speciazione”: l’altro diviene “mostro”, un ladro-aggressore, senza resti di umanità, permettendo quindi di cancellare il senso di colpa”.

E’ psicologicamente comprensibile una reazione eccessiva in un caso estremo, colpire alla schiena il bandito che fugge, può capitare al ladro di pochi chilogrammi di rame di finire crivellato di colpi dopo essere stato immobilizzato. Comprensibile non significa però giusto. Il secondo criterio, etico, è introdotto da una riflessione diversa, è la funzione introdotta dal terzo, dalla legge, dallo Stato.

Proprio lì dove c’è passione, rabbia, interesse personale, paura, odio del singolo uomo è essenziale che intervenga qualcuno che decide se l’azione coincide con ciò che si può considerare giusto. Avendo per molti anni avuto a che fare con criminali, conosco bene le fantasie di vendetta, la voglia di farsi giustizia da soli in chi ha visto un proprio caro aggredito o magari ucciso. Comprensibile. Ma – questa la mia tesi – non deve poterlo fare. Proprio perché esiste una chiamata in causa delle proprie passioni più profonde in quel momento non si può essere giustificati. Proprio quando è più difficile è fondamentale la funzione della legge nel giudicare l’esistenza di una “proporzione” tra difesa e offesa.

La funzione della legge è esattamente questa. Freud nel “disagio della Civiltà” afferma: “la comunità si oppone come ‘diritto’ al potere del singolo, che viene condannato come forza bruta”. La legge impone un criterio di giustizia che interviene dopo gli eventi ma che anche li precede costituendo l’orizzonte di ciò è lecito, esercitando un’importante funzione dissuasiva.

Secondo Sicignano la morte del ladro deve sempre essere considerata conseguenza naturale di un furto che sia anche magari bagatellare, un incidente sul lavoro.

La legge, lo Stato, l’istituzione deve fare un ragionamento di portata più ampia e complessiva dal criterio ad personam. Il principio proposto da un parlamentare leghista peraltro mio quasi-omonimo, Paolo Grimoldi è di eliminare il reato di eccesso di legittima difesa in caso di violazione di domicilio. Niente a quel punto, una volta varcata la soglia sarebbe più classificabile come eccesso, e quindi il topo di appartamento potrebbe essere inseguito e ucciso, ma anche, perché no, potrebbe forse essere catturato, forse magari torturato?

Uno Stato di diritto non può stabilire nessuna circostanza in cui il singolo cittadino abbia un “diritto a uccidere” oltre la conseguenza naturale, anche mortale di un’azione di difesa.

In Lombardia la Giunta ha approvato un progetto di legge per il patrocinio dei cittadini che vengono accusati di eccesso di legittima difesa (il presidente Maroni: “La difesa è sempre legittima. La proprietà privata è sacra: chi entra non invitato in casa d’altri deve sapere che rischia”). Mandando un pericolosissimo messaggio d’impunità. Ma il peggio è che l’istituzione ribalta così la propria funzione naturale di argine, incentivando paradossalmente l’uso privato della forza e affiancando il singolo, ma non un cittadino qualsiasi, ma quello che si addormenta con la pistola sul comodino della stanza da letto a sparare, forse di fronte ma forse alle spalle, e a sparare ancora a un ragazzo ormai a terra.

Secondo Cesare Beccaria le leggi sono “elementi sensibili che bastano a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos”. Invece la Regione Lombardia si affianca proprio all’animo individuale più dispotico e capriccioso, spaventato e arrabbiato, alle passioni di vendetta e alle istanze più incontrollate, senza riguardo per la proporzione tra offesa e difesa, inaugurando, dopo il tramonto dell’era del berlusconismo, l’alba dell’epoca oscura del sicignanismo.

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