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Probabilmente non era mai successo al mondo niente di simile di quanto sta accadendo in questi giorni a Roma, al piano di sopra della stazione Termini, presso i laboratori LuissEnLabs, sotto il nome di 19 Million Project. Circa 120 giornalisti, principalmente digitali, da tutte le parti del mondo – Stati Uniti, Argentina, Costa Rica, Libano, Grecia, Regno Unito, Cuba, Sud Africa, Francia, Egitto, Cile, Messico, Portogallo: solo per citare a memoria le nazionalità nelle quali mi è capitato di imbattermi personalmente nei giorni scorsi – si sono dati appuntamento lungo ben 12 giorni per discutere assieme di ciò che in questo momento storico è l’urgenza maggiore in assoluto del nostro pianeta: la crisi dei rifugiati (che purtroppo, in particolare in Italia, si mischia spesso insensatamente con galere amministrative e non solo). La Bbc, la televisione pubblica libanese, il Financial Times, il New York Times, il Guardian e tante altre testate da ogni continente hanno sentito l’esigenza di confrontarsi per trovare insieme strumenti comunicativi nuovi e più efficaci per raccontare la tragedia alla quale stiamo assistendo. Sorprende, a dire il vero, la scarsa presenza di giornalisti italiani.

Il 19 Million Project nasce dallo sforzo congiunto delle associazioni Chica Poderosas e Cild (Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili), con il sostegno dei media network Univision e Fusion nonché di Global Editors Network, di Google e del Berkeley Advanced Media Institute che da subito hanno creduto nel progetto. 19 milioni è il numero stimato di persone che nel solo 2014 hanno dovuto lasciare il proprio Paese per scappare altrove.

Ogni giorni che passa sono vite umane che perdiamo, si sono detti gli organizzatori del progetto. Siamo tutti chiamati a confrontarci con questo tragico pezzo di storia in mezzo al quale ci è capitato di vivere. I media hanno un compito specifico da portare avanti: informare in maniera chiara e puntuale la grande opinione pubblica che non ha accesso a informazioni dirette, far crescere a macchia d’olio il senso di indignazione e di solidarietà che abbiamo visto alcune settimane fa al confine tra Austria e Ungheria, che abbiamo visto noi romani al centro Baobab della Tiburtina, dove un intero quartiere si è mosso a portare vestiti, cibo, assistenza sanitaria, aiuti di ogni genere alle migliaia di rifugiati che hanno transitato e continuano a transitare per il centro.

È importante raccontare con dati fedeli alla realtà e attraverso strumenti comunicativi capaci di arrivare a tutti in tempi rapidi perché le persone scappano dalla Siria o dall’Eritrea, dove si trovano e come si vive nei campi profughi, perché i rifugiati arrivano alle coste europee, come attraversano il mare, cosa ha fatto e cosa non ha fatto per loro l’Unione Europea, cosa hanno fatto e cosa non hanno fatto i singoli Stati, cosa succederebbe e cosa non succederebbe se i richiedenti asilo venissero tutti accolti in Europa: sicuramente non diventeremmo un continente a prevalenza musulmana, sicuramente non andremmo incontro a un baratro economico, sicuramente non si tratterebbe di un impoverimento bensì di un arricchimento della nostra struttura sociale e lavorativa.

Se saremo in grado di far passare davvero questa comunicazione, se saremo in grado di spostare sempre più gente dalla parte di coloro che non hanno paura ma hanno invece sdegno, dalla parte di chi in questi mesi presta le proprie braccia, le proprie macchine, i propri profili Facebook per guidare le rotte dei rifugiati; se saremo in grado di fare questo, allora costringeremo anche i governi a una politica inclusiva che smetta di fare stragi.

I 120 giornalisti che per 12 giorni hanno lasciato le loro redazioni per aprirsi a una grande redazione mondiale hanno accettato il peso della storia e si sono fatti carico del loro ruolo. Che ciascuno faccia la propria parte. Non c’è più tempo da perdere.

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