Walter De Silva è stato il designer del rilancio (anche economico) di Alfa Romeo con la 156 (1997), progetto colto e intelligente, sensibile ai caratteri e all’identità storica, a cui per due decenni hanno guardato tutti i modelli del marchio ex-milanese, poi Fiat.

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Non avendo bisogno la casa madre torinese di un buon designer (…), De Silva si trasferisce in Seat e successivamente guida per molti anni il design del gruppo Audi-Volkswagen, contribuendo anche all’approdo dentro lo stesso gruppo automobilistico tedesco dell’Italdesign di Giorgio Giugiaro, anch’egli probabilmente ritenuto non utile né necessario (…) al design delle automobili del gruppo Fiat, poi Fca.

Giugiaro ha di recente venduto il marchio, De Silva andrà in pensione a fine novembre da Volkswagen, esito, fra l’altro, del processo di trasformazione proprietaria-societaria nonché del difficile momento dopo lo scandalo emissioni. La chiusura dei legami con l’industria tedesca di due importanti car designer, anche se assai differenti per ruolo e competenze, fornisce lo spunto per tornare a parlare della difficile situazione italiana del settore.

Fiat e le sue aziende sono ormai da tempo fuori dall’Italia in una direzione evidente (e certo legittima ma discutibile) che privilegia finanza e business non certo il buon progetto, col quale si fanno anche gli affari (sulla Golf di Giugiaro qualcuno campa dagli anni Ottanta) – in attesa dei prossimi, purtroppo assai prevedibili, risultati della gestione della Ferrari “da borsa” –; gli storici carrozzieri-car designer hanno chiuso o vanno smobilitando; il resto di un settore, un tempo florido e fondante per l’economia italiana, mostra segni evidenti di difficoltà.

Si può dire che questi sono i nostri tempi, che così vanno le cose, che il mercato è diventato globale, il business è business e così via cinicamente banalizzando. Ma qualcosa non torna.

Sembrano essere mancate significative riflessioni e azioni pubbliche di intervento politico (nel senso alto di “servizio alla polis”), strategico, di incentivo a investire, fino alla salvaguardia; sono state carenti le iniziative imprenditoriali private ma anche le posizioni sindacali non solo conservative dello status quo e delle “rendite di posizione”; e ancora adeguate riflessioni di natura economica e culturale che permettessero di provare ad affrontare il difficile contesto contemporaneo di impresa, lavoro (e ruolo del progetto).

Sul mercato infatti si sta anche e grazie a tutte queste condizioni. Si può continuare a dire che così va il mondo, ma qualcosa non torna; soprattutto se si sceglie di guardare le cose dal punto di vista delle possibilità di benessere, non solo economico naturalmente, delle persone.

Da dove si ricomincia? Come si fa ad avviare un rinascimento imprenditoriale nel nostro Paese? Questo dovrebbe essere il grande tema del dibattito politico e culturale.

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