Molto spesso le riflessioni che “propongo” sono il frutto di una lunga elaborazione e di confronto con parenti e amici. Bene! Quando ho pensato di riprendere le fila della storia di Federico Barakat, si è accesa – giustamente – una discussione in famiglia finalizzata ad impedirmi una crociata contro i servizi sociali e i suoi operatori che (quasi sempre) si trovano ad operare in una situazione di accerchiamento tra le esigenze di bilancio dei comuni da un lato e le sentenze e le ordinanze dei Tribunali sempre più lontane dalla giustizia ma molto, molto vicine ai rigori di una Legge sempre meno chiara; sempre più guidata dalla ricerca di consenso elettorale o dall’emergenza ma sempre più lontana, invece, dal buon senso e, appunto, dalla Giustizia.

Non mi scaglierò, quindi, in questa sede, contro gli assistenti sociali e gli operatori del centro socio-sanitario di San Donato Milanese che, per quanto assolti in Cassazione, hanno (indiscutibilmente) pur sempre facilitato – con la loro assenza (mancata vigilanza) – il “compito” dell’omicida padre di Federico. Se, infatti, un Tribunale di questa Repubblica non è riuscito a definire – “oltre ogni ragionevole dubbio” – la colpevolezza dei tre imputati (Elisabetta Termini, dirigente del servizio sociale, Nadia Chiappa assistente sociale e Stefano Panzeri, un educatore), non sarò certo io, peraltro privo dei necessari strumenti di conoscenza, ad emettere un’alternativa sentenza di condanna presa con la “pancia”.

Del resto, seppur con mille difficoltà, la mamma di Federico, Antonella Penati, che ha lanciato una raccolta fondi sul sito www.buonacausa.org, ha ancora la possibilità di ottenere giustizia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Sono con lei e, pur non essendo d’accordo con le abusate catene di sant’antonio di raccolta fondi, invito (per una volta) a collaborare, appunto, per una buona causa.

Tornare sulla triste storia di Federico, invece, vuole rappresentare – per me – il grido di allarme dei tanti operatori del sociale, delle associazioni che, ormai senza voce, tentano di rappresentare una situazione al limite della precarietà. Perché è solo per i positivi interventi del fato, per il propizio agire del caso o ancora, per chi crede, per l’intervento di Santa Pupa, se la sorte di Federico rimane un caso isolato.

Non passa giorno, infatti, che non si assista (soprattutto nei casi di forte contrasto e litigiosità tra i coniugi o, peggio, nei casi di violenza domestica) ad una situazione di questo tipo: i servizi sociali, incaricati dai Tribunali, rimettono – ai Tribunali stessi – una relazione, stilata  in assenza di protocolli e regole certe, in cui “per la tutela dello sviluppo del minore e del suo bisogno di crescita” si “accusano” i genitori biologici di non essere adeguati.

A loro volta i Tribunali, sulla scorta di tale relazione, “nel tentativo di garantire un recupero ed un sereno svolgimento del rapporto tra genitore e figlio”, affidano (sempre più spesso) l’esercizio della potestà genitoriale ai servizi sociali a cui, appunto, erano state demandate le indagini psico diagnostiche sul nucleo familiare in crisi.

Si aggiunga a tutta questa situazione già paradossale che, in virtù del Decreto Legislativo 154 del 2013 (entrato in vigore nel febbraio del 2014), molte controversie che rientravano nella competenza del Tribunale dei minori rientrano, ora, nella competenza del Tribunale ordinario e si completerà il quadro di caos completo in cui, nel nostro Paese, è ridotta la tutela dei minorenni in difficoltà.

Perché, se il presupposto da cui partono i Tribunali è quello di investire il servizio sociale del compito di gestire la conflittualità della coppia e non quello di proteggere e tutelare il (i) soggetto (i) debole (i), gli operatori non possono che modulare la loro attività e il grado di controllo più sulla gestione di tale conflitto familiare che non sulla tutela del minorenne esponendolo, quindi, ad una situazione d’insicurezza e pericolo. Situazioni che, se possono essere ridimensionate nei casi di “normalità”, in quelli di un padre maltrattante e violento, tornano ad esporre le vittime di quella violenza (agita e assistita) al rischio della reiterazione o di nuovi danni.

Così come è accaduto, ancora qualche giorno fa nella Romagna Felix, quando – durante un incontro protetto – un papà è riuscito a rasare la testa di un bambino perché non gli piaceva la foggia che il barbiere, su indicazioni della mamma “malevola”, aveva dato ai suoi capelli.

Non si tratta, dunque, di attaccare i “servizi sociali” e i loro operatori ma di evidenziare come il sistema di welfare locale – così come è strutturato – fa acqua e, soprattutto, non risponde più alle nuove esigenze e alle nuove consapevolezze della società.

Sono i sindaci, altresì, che andrebbero sollecitati a lavorare per ripensare protocolli e modalità d’intervento (e di finanziamento), per evitare sprechi e rispondere ai bisogni dei cittadini, coinvolgendo sempre di più, nei processi e nei percorsi decisionali ed operativi, il privato sociale in tutte le sue declinazioni.

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