di Aurora Notarianni*

mobbingEbbene si, il mobbing è reato!

Nella frenetica corsa per il successo ed il denaro ma anche per la sopravvivenza, le relazioni lavorative perdono il senso della propria umanità e la prevaricazione e l’arroganza la fanno da padrone. Sempre più spesso.

E sempre più spesso i lavoratori sono vittime di atti persecutori.

Il fenomeno del mobbing è ben conosciuto nelle aule giudiziarie ed è connotato da una condizione esistenziale dolorosa ed intollerabile causata da plurimi atteggiamenti, reiterati nel tempo, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificarla, ad isolarla fino ad escluderla dall’ambiente di lavoro.

Non occorre arrivare agli estremi. Essere bruciati vivi, come è accaduto al povero Ion Cazacu, quarantenne piastrellista rumeno, che non voleva più lavorare in nero e chiedeva al suo padroncino solo di essere assunto.

Quando si è vittime di atti persecutori e ci si sente impotenti si accumula ustione dopo ustione, ferita dopo ferita.

Il lavoratore perde la propria dignità e la stima in sé e la condizione iniziale di stress diventa una sindrome irreversibile che si ripercuote nella sua vita familiare e sociale.

Questa spirale potrà essere interrotta?

Dopo questa recente sentenza il lavoratore in condizione di debolezza potrà ricevere maggiore tutela con i più incisivi poteri del giudice penale, come è avvenuto per il reato di stalking. La Cassazione, infatti, ha nuovamente stabilito che il datore di lavoro deve essere punito per le condotte di maltrattamenti e di abuso d’ufficio commesse ai danni del lavoratore. Il processo ha riguardato il caso di un dirigente medico, un cardiochirugo che ha denunciato il suo direttore per le azioni discriminatorie, per il suo demansionamento ed anche per l’umiliazione della sua professionalità.

Il principio di diritto espresso è applicabile a tutti i lavoratori, impiegati, operai, dirigenti, del settore privato e della pubblica amministrazione.

La Corte chiarisce che l’art. 97 Cost. costituisce parametro di riferimento del reato di abuso d’ufficio perché il principio costituzionale di imparzialità, a cui il funzionario pubblico deve improntare la sua condotta, ha carattere immediatamente precettivo.

Sussiste, dunque, il reato di abuso di ufficio previsto dall’art. 323 cod. pen. in tutti i casi in cui l’organo di vertice – politico o amministrativo – di una pubblica amministrazione pone in essere comportamenti di vessazione del lavoratore e compie atti volti alla sua emarginazione dal contesto lavorativo, alla privazione o alla sottrazioni di mansioni, screditandolo con arbitrari giudizi poco lusinghieri, attribuendogli compiti che mortificano la sua professionalità.

I giudici di legittimità evidenziano come l’art 97 della Costituzione impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi prevedendo una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.

E quando il lavoratore potrà contestare il reato di maltrattamenti?

La Corte conferma che la norma, tradizionalmente applicata nell’ambito del contesto familiare, è stata nel tempo estesa ad altre relazioni ed in particolare ai rapporti di educazione, istruzione e cura ma anche ai rapporti professionali e di prestazione di opera e non può essere esclusa neppure nei rapporti intercorrenti tra professionisti di elevata qualificazione.

Sarà, però, necessario prestare attenzione alla dinamica relazionale che intercorre tra datore di lavoro e lavoratore. Ai fini dell’integrazione del reato non basta, infatti, che vi sia un rapporto di subordinazione o di sovraordinazione, ma è necessaria una condizione di supremazia-soggezione psicologica o comunque di supremazia-subalternità.

Questo significa che il lavoratore-vittima deve essere sottoposto all’autorità del datore di lavoro in un contesto di prossimità permanente e di abitudini di vita (anche lavorativa), nel senso che il soggetto attivo del reato dovrà trovarsi in una posizione di supremazia potendo esercitare un potere direttivo o disciplinare che può arrivare sino al licenziamento. Potere, quindi, tale da tenere il soggetto passivo in una condizione di soggezione anche solo psicologica.

Per la denuncia non bastano pochi e singoli atti di maltrattamento o di abuso diradati nel tempo perché il giudice dovrà verificare se le condotte poste in essere a danno del lavoratore siano connotate dai caratteri dell’abitualità, della sistematicità e dell’intenzionalità persecutoria necessari ai fini della configurazione del reato di maltrattamenti, nonché dalla deliberata violazione di norme e dal deliberato intento lesivo proprio alla fattispecie del reato di abuso.

Il lavoratore, infine, deve sapere che può agire con separate azioni, quella in sede penale e quella innanzi al giudice del lavoro.

Il ricorso al giudice del lavoro non esclude gli altri strumenti di tutela giudiziaria come la denunzia-querela di reato la cui condotta si consuma con il compimento delle azioni discriminatorie, vessatorie ed oppressive.

*Avvocato giuslavorista, attenta al diritto euro-unitario ed alla giurisprudenza delle Alte Corti, non trascuro la difesa nelle connesse materie di diritto penale. Dedico il mio impegno, negli organismi e nelle associazioni dell’avvocatura ed in altre non profit, per le azioni di genere e per la formazione e l’occupazione dei giovani e, più in generale, per la tutela dei diritti fondamentali.  Nell’ultimo anno ho affrontato il tema dell’immigrazione con la Scuola Superiore dell’Avvocatura partecipando, quale componente senior, al gruppo di studio sul Progetto Lampedusa. La mia terra di nascita è la Calabria, la Sicilia quella di adozione. Vivo e lavoro a Messina ma adoro viaggiare.

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