Spectre è il titolo dell’ultimo 007, e subito l’effetto madeleine con le relative rimembranze si abbatte su mente, cuori e pancette dei ragazzi del tempo che fu (inizio anni ’60) quando venivano iniziati al protagonismo dei marchingegni (con gli oggetti che si facevano personaggi a partire dalla Aston Martin con gli spuntoni ammazza pneumatici) unito alla più tradizionale seduzione tutto corpo (Ursula Andress che, in Licenza di uccidere, sorge dalle acque, con tanto di bikini bianco e di pugnale aderente ai rotondi e asciutti fianchi). Spectre era allora il nome dell’organizzazione segreta cui era assegnato il ruolo del cattivo, in seguito ricoperto da qualche avida multinazionale. Ora è alla Spectre che siamo ritornati (anzi, scopriamo di non essercene mai allontanati), ma con gli aggiornamenti del caso, giacché stavolta l’oggetto conteso non è l’oro di Fort Knox o una qualsiasi cifra di fantastiliardi, ma il controllo globale e totale dell’informazione. In nome della sicurezza totale che, ovviamente, in un mondo complicato e non semplificabile, non è compatibile con la democrazia (dicono quelli di Spectre, ma Bond…).

Sulla trama non ci tratteniamo per rispetto di chi varcherà i botteghini dei cinematografi. Ma possiamo osservare il continente che divide i primi Bond dagli ultimi. Ce ne ha dato l’occasione Sky che, in astuta sinergia con i produttori dell’ultimo episodio ha messo in fila tutti, proprio tutti, quelli precedenti. Risalta così che i Bond di un tempo erano frutto dell’innesto fra l’azione e il meraviglioso insieme con la composizione di sperimentatissimi stereotipi narrativi (l’insidia della Bella, la minaccia della Bestia, la seduzione del vivere avventurosamente, ma anche a sbafo pasteggiando a Dom Perignon a spese del contribuente, altro che lo scontrino di Marino). Al tutto si accompagnava la trovata tecnologica che caratterizzava l’episodio, dalle astronavi minaccia-mondo, ai sottomarini non meno minacciosi, al raggio laser taglia-acciaio (quando era ancora una primizia assoluta). Ma, sostanzialmente, si inventavano situazioni, seduzioni e azioni, e la cinepresa le riprendeva.

Oggi è la ripresa stessa che è diventata acrobaticamente azione, e così siamo di fronte a una sorta di “cartoon con le persone vere” in cui la scena madre è diventato l’”inseguimento panoramico”, e cioè una sorta di Touring Club della suspense, allocato nelle città più turistiche che grazie a computer e stuntmen fungono da ambienti per azioni compulsive proprie dei videogame. Stretti parenti di Tomb Raider. Sta di fatto che intrecciare bellezza dei luoghi e suspense dell’azione è una trovata formidabile perché gli spettatori, lo spiegava già Aristotele, adorano estrarre utilità diversificate dal medesimo testo messo in scena. E state certi che per i popoli del mondo, al di là del ceto medio più colto e “sorrentiniano”, la Grande Bellezza di Roma sarà, presso le agenzie di viaggio, assai più quella mozzafiato di Daniel Craig che l’altra, felliniana, di Tony Servillo. Perché farsi sedurre da un luogo mentre si insegue un farabutto è davvero il massimo.

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