Dopo anni in cui leggiamo su tutti i giornali che l’1% dei ricchissimi si appropria insaziabilmente a livello globale di gran parte della ricchezza prodotta, lasciando agli altri solo le briciole, trovare qualcuno che invece sostiene il contrario non può che lasciare almeno un pochino perplessi. Ma se a dirlo in un voluminoso studio di 83 pagine corredato di tabelle e grafici (come quello che correda questo articolo) è una grande organizzazione ben strutturata, come la Banca Mondiale, allora diventa d’obbligo darci almeno un’attenta occhiata.

The truth about global inequality (Banca Mondiale)

Già nella pagina introduttiva riepilogativa viene infatti messo in evidenza come questa riduzione nella disuguaglianza sia potuta avvenire nonostante il passaggio attraverso una durissima recessione che ha colpito praticamente tutti i Paesi industrializzati. Quindi, dato che la recessione ha prodotto inevitabilmente una riduzione della ricchezza prodotta, un’altissima percentuale di disoccupazione e la chiusura di molte fabbriche ed esercizi commerciali, come si spiega questo fenomeno?

Ovviamente gli economisti della Banca Mondiale tendono a vedere il “bicchiere mezzo pieno” lasciando ad altri il compito di vederlo invece “mezzo vuoto”. Tuttavia leggendo la relazione della Banca Mondiale ed analizzando il grafico allegato, si possono trovare elementi d’intesa. Il grafico illustra in modo comparativo come la maggioranza dei Paesi, a livello globale, abbia avuto una solida crescita negli ultimi 5 anni mentre altri Paesi (tra cui l’Italia) non l’abbia avuta affatto (i Paesi con crescita negativa finiscono all’interno del cerchio).

Il grafico rappresenta bene quello che abbiamo visto in sostanza negli ultimi 5-10 anni: la forte crescita dei mercati emergenti a scapito delle economie “ricche” colpite dalla recessione. Nonostante la cecessione sono però riuscite ad evitare brillantemente la crisi, non solo sul piano economico, ma anche sul piano della distribuzione reddituale, la Germania, la Svizzera, la Norvegia, la Danimarca.

Nei Paesi orientali invece, nonostante una robusta crescita economica e distributiva registrata nell’ultimo quinquennio si nota nell’ultimo anno un tendenziale regresso nel livello di equità distributiva (Cina e Vietnam).

L’Europa, a parte i 4 Paesi sopra citati, mostra invece come la grave depressione economica ed occupazionale sia stata, nonostante le tutele di un welfare, peraltro in grave fase di deterioramento, il peggiore incentivo verso la disuguaglianza distributiva, tuttora in rapida e pericolosa crescita nella maggioranza dei Paesi.

Queste considerazioni consentono a Matt O’Brien, sul Washington Post, di dire che, per risolvere il problema distributivo non basterebbe alzare, anche drasticamente, le tasse ai ricchi. Gli economisti William Gale Melissa Kearney e Peter Orszag, in una serie di simulazioni, hanno infatti verificato che, se avessimo ultra-tassato i ricchi per tutti gli ultimi 35 anni, il beneficio sull’equità distributiva sarebbe stato poco significativo in termini concreti (tra un minimo del 3% ad un massimo del 18%).

Orszag sostiene addirittura che per diverse ragioni si è venuta a creare, nell’ambito di alcuni settori (tecnologico, sanitario e finanziario) una specie di “barriera all’ingresso” che ha consentito al suo interno una molto generosa distribuzione di ricchezza dalla quale sono stati invece esclusi altri soggetti benché della stessa nazionalità o addirittura della stessa azienda.

Personalmente sono molto scettico su questa interpretazione. Sicuramente non si tratta di “barriere all’ingresso” ma del contrario. E’ proprio la pressoché assoluta libertà operativa del mercato globale, insieme ad una imponente disponibilità di ingenti capitali liberi di muoversi rapidamente in ogni parte del mondo che consente a queste aziende di fare affari senza problemi. Se poi aggiungiamo che negli ultimi anni si sono moltiplicati anche i “paradisi fiscali” dove parcheggiare ogni tipo di guadagno, nascondendolo anche alle più moderate imposizioni fiscali, si può trovare in questo trend una causa certamente più significativa della scarsa equità distributiva del reddito generato.

Lo studio dei tre economisti potrebbe perciò meglio spiegare il fenomeno dei due estremi (poveri e ricchi) che crescono insieme.

Le popolazioni di quello che era chiamato Terzo Mondo (fino ad una decina d’anni fa) sono ora protagoniste di quelle che vengono oggi definite economie emergenti. In quest’ultimo quinquennio (cioè quello considerato dallo studio della Banca Mondiale) la crescita è stata così forte da permettere un miglioramento generale del livello distributivo in quelle aree, anche se è noto che comunque, anche in quei Paesi, la fetta più grossa è andata come sempre ai già ricchi e ai potentati politici.

Ne scaturisce perciò un progresso in termini distributivi vero nei numeri ma falso nella sostanza. Perché laddove c’è stata vera crescita, la crescita è avvenuta a discapito delle economie in recessione, quindi non si è trattato di vera equità distributiva (normalmente intesa in senso sociale, all’interno di un sistema definito) ma di trasferimento della ricchezza delle classi medie (soprattutto) delle economie occidentali a quelle delle economie emergenti, dove sono fioriti a centinaia “nuovi miliardari”.

La disuguaglianza diminuisce perciò in modo “orizzontale”, a livello globale, togliendo ricchezza alle classi medie dei Paesi ricchi e distribuendola ai Paesi emergenti. La disuguaglianza “verticale”, quella che misura la distanza tra ricchi e poveri, invece aumenta, sia nei Paesi ricchi che nei Paesi emergenti.

 

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