Unione EuropeaÈ ormai passato più di qualche giorno dal weekend di EurHope?, la tre giorni promossa dal gruppo europarlamentare delle sinistre unite Gue/Ngl, ma sono certo che si sentirà parlare di reddito minimo, sopravvivenza o ricerca di nuove forme di sicurezza sociale ancora per un po’. Le sessioni di dibattito, che si sono svolte a Bari tra venerdì 25 e domenica 27 settembre scorso, hanno visto al centro della discussione problematiche e possibili soluzioni per creare lavoro, reinventare il welfare e combattere contro la precarietà e le ineguaglianze. In tanti sono intervenuti dal mondo della politica, della ricerca e del sindacato: per questo motivo, ho scelto di ascoltare le voci di protagonisti internazionali e dei membri del Parlamento europeo presenti per avere chiaro quale idea di Europa si cerchi e si voglia costruire. Dopo aver chiacchierato con Eleonora Forenza (L’Altra Europa), Fabio De Masi (Linke), Tania González (Podemos) ed Emanuele Ferragina (docente, Oxford/SciencesPo), ho scelto di cominciare il focus su EurHope? da quest’ultimo per avere una visione d’insieme quanto più vasta possibile su quali siano i bisogni – compreso chi li rappresenti e chi se ne faccia portatore – a cui dare delle risposte. Autore di libri e pubblicazioni sul tema del welfare e delle politiche sociali, Ferragina praticamente non ha bisogno di presentazioni.

Fondamentale, ai fini di ogni analisi sugli argomenti caldi delle tre giornate di Bari, è parlare con chi non si sente ascoltato ed è facile preda della disaffezione nei confronti della politica. Bisogna delineare le caratteristiche di questa massa, che lo stesso Ferragina ha definito “maggioranza invisibile” nell’omonimo libro di cui è autore: “la maggioranza invisibile è costituita da precari, disoccupati, pensionati poveri, migranti e Neet. Queste persone hanno dei problemi derivanti dalle grandi trasformazioni che abbiamo vissuto: uno di questi è la mancanza di reddito. Per ridare voce a questa fetta della popolazione, il problema di fondo diventa riuscire a fare da contraltare a tali trasformazioni. Per questo motivo, ritengo che nell’Italia del 2015 sia importante ragionare su quello che serva all’interno del welfare: parlando di far corrispondere dei servizi minimi – che oggi mancano – ad alcune fasce della popolazione che io identifico come maggioranza invisibile, ad esempio, non parliamo altro che di reddito minimo. Il nostro sistema di welfare, su questi punti, è talmente lacunoso che se noi non pensiamo alla corresponsione di alcuni servizi di base e al reddito minimo è molto difficile fare progetti per il futuro e parlare di grandi utopie.”

E nonostante la situazione non sia facile per grandi fasce della popolazione, discorsi di tale tipo sembrano quasi andare in controtendenza con le ultime riforme del welfare in molti Paesi dell’Unione: “In Germania e Italia, ad esempio, dove ci sono delle forme di precarizzazione della forza lavoro che non costruiscono un minimo, ma fanno aumentare il numero delle persone che sono sul mercato del lavoro: non abbiamo mai avuto così tanti cittadini attivi come oggi sul mercato del lavoro e in condizioni di disoccupazione crescente. Serve far capire alle persone che hanno dei diritti e che li devono difendere”.

Il dibattito sul reddito minimo però, che pure è stato ricco e ampio durante i giorni della rassegna di Gue/Ngl, genera a volte dei fraintendimenti a livello lessicale e di classe. Si parla di reddito di cittadinanza, ma di quale cittadinanza? “Dove sono i limiti? Chi definiamo “cittadino”? Un europeo? E poi i migranti? La questione si amplia, e la necessità diventa la creazione di una linea di base grazie alla quale noi stabiliamo che a nessuna persona che abbia il diritto di vivere in Italia sia consentito di scendere al di sotto di quella soglia. Come? Attraverso un sistema di trasferimenti monetari, ad esempio”.

C’è un arretramento abbastanza generalizzato – continua Ferragina – dei diritti di cittadinanza sociale. Si è tagliato in alcune cose, come sulla disoccupazione, a fronte di un aumento dei diritti sulle politiche familiari”. I tagli e gli aumenti tra le voci di spesa, però, non sono decisamente equi e proporzionali/proporzionati, perché “la crescita dei costi in materia di politiche familiari è molto più bassa rispetto al taglio sui sussidi di disoccupazione. A livello complessivo si nota quindi che il welfare viene tagliato, soprattutto nei Paesi dove era più generoso – tipo la Svezia, che è un caso paradigmatico”.

Ma se il welfare viene tagliato, e allo stesso tempo le fasce che ne potrebbero o dovrebbero beneficiare si espandono sempre di più in termini quantitativi, chi o cosa sosterrà o determinerà la sopravvivenza e il futuro dello stato sociale in Europa? Come già altre volte sostenuto su questo blog e in altre sedi, “in parte saranno i migranti, e questo sta già succedendo; l’altra parte sarà deputata alla nostra capacità di redistribuire i diritti. Con le percentuali di spesa che abbiamo oggi potremmo assicurare la popolazione italiana molto meglio, ma questo richiederebbe delle operazioni molto dolorose: tagliare alcune pensioni a gente che non ha contribuito e assicurare altri rischi, ad esempio. Ci dovrà essere una redistribuzione dei diritti della protezione sociale”.

Redistribuzione della ricchezza anche come conseguenza di una redistribuzione di diritti, in una certa parte dei casi acquisiti e apparentemente intoccabili. Se l’equità passa dallo scontro sociale, di certo non deve passare però da quello generazionale: in uno scenario come quello presente, pensionati minimi e lavoratori precari si trovano in condizioni non così lontane come si potrebbe pensare. Di questo e altro parleremo con Eleonora Forenza, europarlamentare de L’Altra Europa con Tsipras, nel prossimo post.

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