poletti 675

di Giovanni Marcucci*

La nuova disciplina che regola i licenziamenti illegittimi pone particolari problemi nel settore degli appalti (pulizie, logistica, mense, ecc.), nel quale la conservazione del posto di lavoro è sottoposta a scossoni dovuti al continuo avvicendarsi di diverse imprese nella gestione dei servizi appaltati.

Infatti, come ormai noto, il nuovo contratto a tutele (de)crescenti introdotto dal governo in carica prevede per i lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore (7 marzo 2015) e licenziati illegittimamente l’applicazione di una tutela indennitaria, peraltro risibile (due mesi per ogni anno di servizio), accompagnata da una funzione del tutto marginale per la tutela reintegratoria, prevista esclusivamente per i licenziamenti ritenuti più gravi.

Con specifico riferimento ai licenziamenti nell’ambito di appalti il governo, con una disposizione di poche righe, ha tenuto conto dell’anzianità maturata dal lavoratore coinvolto nel cambio di appalto; ma ciò solo ai fini del calcolo dell’indennizzo dovuto in caso di dichiarata illegittimità del licenziamento, così disponendo: “l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata” (art. 7 D.Lgs. 23/2015). In altri termini un “vecchio” assunto, una volta passato alla nuova società a seguito di cambio di appalto, secondo le intenzioni del governo, andrebbe equiparato ad un “nuovo” assunto, nel senso che dovrebbe perdere in ogni caso il diritto alla tutela reintegratoria ed avere soltanto quello ad una tutela indennitaria.

La differenza tra vecchi (e più tutelati dal testo dell’art. 18, tutt’ora in vigore) assunti e nuovi assunti sembrerebbe dunque destinata ad essere rapidamente superata nel settore degli appalti, ove frequentemente assistiamo all’avvicendamento di imprese nella gestione del contratto e dei rapporti di lavoro che da questo dipendono. Ma così non è, sia per il ruolo che riveste la contrattazione collettiva nell’ambito della disciplina normativa degli appalti, sia in forza della normativa specifica di settore, comunque sopravissuta al jobs act.

Per quanto riguarda la contrattazione, dopo l’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, vi sono importanti settori in cui la contrattazione tra le parti sociali ha portato alla stipulazione di accordi che, in occasione del cambio di appalto, hanno espressamente previsto per i lavoratori coinvolti il mantenimento delle tutele (più reali) previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori tutt’ora in vigore.

Sul piano legislativo, invece, l’art. 7 comma 4bis legge 31/2008 individua testualmente la duplice finalità perseguita dal legislatore nel “favorire la piena occupazione” e nel garantire “l’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori”, con l’applicazione ai lavoratori riassunti dello stesso trattamento economico normativo previsto dai contratti collettivi di settore.

Come si è giustamente affermato “il fine cui tende la norma e che assurge a presupposto stesso della sua applicazione è infatti rappresentato congiuntamente dalla piena occupazione “e” dall’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori. Questi due requisiti devono essere presenti entrambi per giustificare l’esclusione della procedura di licenziamento collettivo; mancando anche uno solo di essi, la procedura è inevitabile” (Tribunale Catania, sent. 2151 del 12.7.2013).

Se questi sono i principi di portata generale applicabili nel settore dei servizi gestiti in appalto, non è difficile comprendere come il contratto a tutele crescenti sia in aperto contrasto con gli stessi, dato che non viene assicurata alcuna valida tutela contro i licenziamenti ingiustificati di carattere economico/disciplinare e, in ogni caso, un analogo e adeguato regime di stabilità del rapporto rispetto a quello garantito dall’art. 18; nei lavori preparatori della legge 31/2008 il legislatore aveva ben chiarito che “la norma in esame consente una procedura più snella, un più rapido riassorbimento del personale, un’invarianza del trattamento economico e normativo, e dunque maggiori tutele, con conseguente garanzia di maggiore trasparenza negli appalti a vantaggio delle imprese corrette”.

Questa disciplina normativa potrebbe essere dunque invocata dai lavoratori, e/o sul piano collettivo, dalle organizzazioni sindacali a fronte di passaggi di appalto nei quali non siano garantiti piena occupazione e/o invarianza del trattamento economico/normativo, al fine di essere reintegrati alle dipendenze del precedente datore di lavoro. A questo si aggiunga che se il legislatore delegato, con l’introduzione del contratto a tutele crescenti, aveva come obiettivo dichiarato quello “di rafforzare le possibilità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” (art. 1, comma 7, legge 183/2014), nel settore degli appalti, disciplinato da una normativa specifica, l’obiettivo dichiarato è invece quello di garantire occupazione e stabilità nel rapporto di lavoro a chi un’occupazione già ce l’ha e deve per legge o contratto conservarla. Viene dunque ad emergere un probabile eccesso di delega da parte del governo nell’estensione della disciplina del contratto a tutele crescenti anche al settore degli appalti, eccesso che è auspicabile sia superato dal legislatore, senza dover attendere un pronunciamento della Corte Costituzionale (che comunque verrà interpellata nel primo caso che si presenterà).

In conclusione il dualismo di tutele tra “vecchi” e “nuovi assunti” nella disciplina contro i licenziamenti illegittimi, introdotto con il contratto a tutele crescenti, vive anche nel settore degli appalti ed è destinato a durare nel tempo; infatti gli accordi sindacali che hanno previsto, e così si auspica faranno anche in futuro, il mantenimento dell’art. 18 a favore dei lavoratori coinvolti nel cambio appalto, e la normativa speciale che disciplina i cambi di appalto, possono comunque assicurare ai “vecchi assunti” – cioè a coloro i quali erano già occupati sull’appalto in epoca precedente all’entrata in vigore del Jobs act – il mantenimento di una effettiva e “reale” tutela del posto di lavoro.

*Studio legale Gariboldi-Ghidoni-Marcucci. L’attività dello studio in ambito giuslavoristico, fin dalla sua costituzione (1994), è esclusivamente volta alla difesa dei diritti dei lavoratori – sia sul piano contrattuale, che su temi di natura previdenziale – operando sui territori di Milano, Monza, Lodi, Pavia, Vigevano, Voghera, Como, Bergamo, Brescia, Lecco, anche in collaborazione con le strutture vertenziali, legali e categoriali della Cgil.

 

Articolo Precedente

Alitalia, per risparmiare fa decollare personale in riposo. Il tribunale la blocca

next
Articolo Successivo

Cassa integrazione, Cgil: “Nel 2015 persi quasi 2 miliardi di reddito”

next