Vi è uno splendido tweet che molto circola in rete in questi giorni: “dati dicono immigrati si stanno integrando e sostituendo ad autoctoni nella filiera produttiva”. Curioso modo di esprimersi, che chiede di essere commentato. Vi scorgo due curiosi lapsus.

Intanto – partiamo dal primo – sia consentito sollevare il dubbio che possa darsi un’automatica e irriflessa identità tra integrazione e inserimento nella filiera produttiva; ché, se così fosse, anche gli schiavi ai tempi dello schiavismo americano e perfino Spartaco e i suoi compagni di sventura dovrebbero a rigore dirsi “integrati” in quanto parti attive della produzione. Integrazione, forse, dovrebbe dire qualcosa di diverso e di più alto, credo: ad esempio, riconoscimento di diritti civili e sociali; ma poi anche dignità del lavoro e integrazione culturale.

Ciò che, ovviamente, non si vede sotto il cielo. Il sistema della produzione, che parla la neolingua buonista per nascondere le proprie politiche spietate, ha bisogno dei migranti e sempre li elogia, ma non per integrarli (se non secondo la discutibile identità di cui sopra), bensì per sfruttarli come nuovi schiavi; non mira a dare loro diritti, ma a togliere anche a noi i pochi diritti superstiti; insomma, si sa, aspira a produrre l’ennesima guerra tra poveri e insieme, a usare i più poveri per abbassare al loro livello i meno poveri.

Insomma, il sistema mondialista della produzione fa credere agli italiani poveri che la loro povertà dipenda da chi è ancora più povero (mai dal potere, dalla finanza, dalle banche, ecc.) e che, dunque, occorra prendersela con chi sta sotto, non con chi sta sopra. Ne è l’emblema la patetica retorica delle “ruspe” rivolte sempre e solo verso il basso, mai – guarda caso – verso l’alto.

Secondo lapsus del tweet: gli immigrati – si dice – si stanno “sostituendo ad autoctoni nella filiera produttiva”. La parola chiave è, naturalmente, “sostituendo”. Il re è nudo, il gioco è chiaro, l’obiettivo è palese: per la destra del denaro l’obiettivo è sostituire i lavoratori autoctoni con gli immigrati; per la sinistra del costume, questo si chiama “integrazione” ed “emancipazione”.

Insomma, emancipazione e integrazione significa far lavorare i migranti nelle filiere della produzione a prezzi stracciati e senza il giusto riconoscimento dei diritti. Significa sostituire la manodopera che ha diritti sociali e una residuale coscienza di classe oppositiva (scioperi, ecc.) con una nuova manodopera che non ha né gli uni né l’altra, e che è disposta a tutto pur di sopravvivere. Disposta anche a fare per 3 euro all’ora ciò che la manodopera educata dalla stagione delle lotte di classe e dello “stato sociale” mai accetterebbe.

Così, vince la legge del capitale, che è sempre una sola: trovare qualcuno disposto a fare lo stesso a un prezzo più basso. Delocalizzazione della produzione e immigrazione coatta sono le due facce della stessa medaglia, sono i due movimenti simmetrici con cui il capitale sposta la produzione dove costa meno o attira lavoratori disposti a lavorare a prezzi più bassi e con meno diritti: la medaglia dalle due facce è, ovviamente, quella del conflitto di classe, che il capitale sta vincendo senza incontrare resistenza e con la piena subalternità culturale di intellettuali, sinistre, ecc. Che subito diffamano come razzista e xenofobo chiunque osi dire ciò che l’immigrazione è oggi uno strumento della lotta di classe nelle mani dei dominanti.

Si dovrebbe, credo, ripartire dal “Capitale” di Marx: dalla categoria di “esercito industriale di riserva”. Si capirebbero molte cose: tra cui le ragioni dell’ipocrita elogio dell’immigrazione che i magnati della finanza e la politica al loro guinzaglio continuano quotidianamente a fare.

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