università 675

La fantasia della politica italiana in era Renzi trova numerose e plurime occasioni per sfogarsi.

Una volta si parla di Buona scuola, un’altra si proclama la grande riforma delle istituzioni come priorità assoluta nella vita di tutti, poi ci si balocca con il Jobs Act (chiamarlo decreto sul lavoro era troppo italiota) e adesso si tira fuori dal cappello la frase magica, l’arma totale contro i “baroni”: “Cinquecento cattedre ai ricercatori più bravi”. Così proclama orgogliosa, gonfiando il petto e i titoli, l’Unità, insieme a Repubblica (sempre più calatasi nel ruolo di house organ del governo) e il Messaggero.

Il contesto? Per superare il sistema cooptativo dei baroni (in altre parole, secondo il senso comune, per evitare che i concorsi siano decisi da pochi professori riuniti in commissione di concorso) basta accantonare 50 milioni di euro, che diventeranno presto 100, e affidare al governo il compito di aprire 500 cattedre mobili per premiare il merito e permettere la mobilità dei vincitori, che potranno muoversi come vogliono da un’università all’altra. E questo, fino a che non vorranno cambiare lavoro, o “verranno licenziati per giusta causa”, oppure, sperabilmente, andranno in pensione.

Ohi ohi… due cose saltano all’occhio: la prima è che l’espressione “licenziati per giusta causa” richiama pari pari la possibilità di risoluzione del rapporto di lavoro esistente nel settore privato, quindi rappresenta un omaggio indiretto al Jobs Act che per la prima volta fa capolino nella Pubblica amministrazione. La seconda è che la mobilità tra atenei esiste già, era il cavallo di battaglia della legge 240/2010 (la riforma Gelmini) e il fatto che si voglia adesso ricorrere a questo strumento aggiuntivo ci dice chiaramente che la grande riforma del centrodestra, fatta propria dal centro sinist-dest di Renzi, ha fallito nel suo scopo principale, quello di favorire la mobilità dei docenti sul territorio. Bene, lo sapevamo, ma oggi lo sanno anche i difensori postumi e gli scettici tardivi della grande riforma.

Però quello che suggerisce il governo – un sistema per finanziare cattedre per professori ordinari e associati che si possano muovere da un ateneo all’altro portandosi dietro lo stipendio – non è un colpo al sistema baronale: semplicemente lo sposta a un livello superiore. Invece di essere le famigerate cupole di baroni italiani a decidere i concorsi in Italia ci saranno nuove cupole di baroni europei a farlo con il beneplacito del governo che, mentre affama il sistema della ricerca in toto, si inventa i biglietti di promozione selettivi gestiti dal governo.

Un modo per superare il sistema baronale, caro Renzi, noi di Rete 29 Aprile l’abbiamo trovato: si chiama ruolo unico, e insieme a noi l’hanno abbracciato in forme diverse, ma sostanzialmente concordi, anche altri soggetti, come Conpass e diversi sindacati della docenza. Quello che invece il governo si inventa è la cooptazione 2.0, i 500 salvatori della patria cervelli in fuga (l’espressione fa sempre effetto), per risolvere il problema dei tanti ricercatori validi e preparati che, come è noto, fanno la fila per salire anche loro sui gommoni del sapere diretti verso la nostra grande, florida, ben strutturata, splendidamente finanziata e rettamente governata università dove gli stipendi sono altissimi (non è vero, sono fermi dal 2010, nel silenzio di tutti, ma tanto chi se ne frega, sono professoroni, in questo caso, anche i ricercatori sottopagati…).

Caro Renzi, la smetta di fare l’apprendista stregone con cose che non conosce e non capisce: una commissione di concorso la si rende pulita togliendo alla radice l’ordinamento gerarchico dell’università italiana, rendendo vera la realtà di una comunità di pari che sono pari in tutto, conoscenza e ruolo universitario, e non delegando al potere governativo una funzione di patron delle scienze e delle conoscenze con diritto di “assunzione mirata”.

A ciascuno il suo mestiere: abbiamo già avuto un presidente del Consiglio che voleva fare l’operaio, il ferroviere, il manager. Per fortuna almeno lui non voleva fare il ricercatore…

di Piero Graglia 

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