“Se l’hai presa tu, tienila nascosta perché ci sono persone che neanche t’immagini dietro quella cosa… ci sono persone ‘malamente’ in mezzo… persone ‘malamente’”. Cosimo Donato parla con la moglie e le dice di parlare con un tale “Bumba” della pistola che ha ucciso il piccolo Cocò. Quell’intercettazione è finita nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Catanzaro Sergio Natale nei confronti di Faustino Campilongo, conosciuto con il soprannome di “Panzetta”, e Cosimo Donato detto “Cosimino”.

Donne e bambini utilizzati come scudo e ammazzati dalla ‘ndrangheta. Le regole della criminalità organizzata sono saltate nella Sibaritide dove nel gennaio 2014 le cosche sono arrivate ad ammazzare anche un bambino di tre anni, colpevole di essere stato utilizzato dal nonno (trafficante di cocaina) come scudo per scongiurare attentati. Stando alla ricostruzione del Ros, l’omicidio di Giuseppe Iannicelli si è consumato nell’ambito di uno scontro con gli Abbruzzese conosciuti come la cosca degli “zingari”.

L’uomo, sorvegliato speciale e con numerosi precedenti penali per traffico di droga, è stato “convinto a portarsi in un luogo isolato da persone che conosceva e delle quali si fidava per essere poi eliminato”. “Iannicelli – scrive il gip – era entrato in contrastro con gli Abbruzzese ai quali era in passato affiliato per aver fatto dichiarazioni a loro carico nel processo ‘Katrina‘, perché intenzionato a collaborare con le istituzioni”.

Ma non era solo questo il motivo dello scontro con gli “zingari”. Questi ultimi, infatti, avevano mal digerito la scelta di Iannicelli di “mantenere un ambito di autonomia nella sua attività di narcotrafficante, procacciandosi la droga non solo dagli Abbruzzese ma anche dai loro nemici (i Forestefano) ovvero, comunque, da canali alternativi (come gli albanesi) e un simile comportamento è intollerabile per un’associazione a delinquere di stampo mafioso che per, per statuto, nel proprio territorio di riferimento mira al controllo esclusivo di tutte le attività illecite”.

Iannicelli andava punito. Sapeva di rischiare di essere ucciso e, proprio per questo, non si staccava mai dalla compagna, di origini marocchine, e dal nipote Nicola Campolongo che viveva con lui dopo l’arresto di entrambi i genitori. Il bambino era presente quando Giuseppe Iannicelli discuteva di droga e dei soldi. Era il suo scudo pensando che la regola di non toccare i bambini dovesse essere rispettata da chi lo voleva morto. Così non è stato e dal giorno della strage, il piccolo Cocò è per la ‘ndrangheta quello che Giuseppe Di Matteo è stato per Cosa Nostra.

Se le regole sono saltate, in Calabria il sangue si lava solo con altro sangue. Nell’inchiesta sono finite anche alcune intercettazioni in carcere dove lo zio Domenico Salvatore Campolongo, alimenta sentimenti di vendetta discutendo con il padre del piccolo: “Per il bambino pagano… pagheranno. Ma pagheranno… per ora non posso fare niente. Il bambino si sono presi? E bambini ci dobbiamo prendere… prima o poi… avete fatto gli infami? Sugli infami ci vogliono gli infamoni… Se volevate ammazarlo dovevate ammazzare lui… teneva l’autista… tenevate sempre l’occasione”.

Dall’inchiesta è emerso, inoltre, che tutti i protagonisti della tragedia erano imparentati o quasi. Famiglie legate da interessi criminali e da rapporti sentimentali perversi. Giuseppe Iannicelli aveva una relazione extraconiugale con la moglie di Donato la cui figlia, invece, “era la fidanzata del figlio – spiega il procutatore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto – Non si può consentire che un bambino di quasi quattro anni possa aver fatto questa fine, siamo a una fase intermedia delle indagini”.

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