Mai fidarsi dei bookmaker. Giovedì 8 ottobre davano Angela Merkel favorita per il Premio Nobel 2015 per la Pace, poiché a favore della cancelliera tedesca pesavano moltissimo sia la complessa mediazione nel conflitto ucraino con gli accordi di Minsk, sia la difficile quanto commovente posizione sull’accoglienza ai migranti. Il Peace Research Institute Oslo – la prestigiosa organizzazione indipendente che studia ogni anno le candidature più interessanti e valide – l’aveva messa in cima alla lista, di conseguenza le agenzie più reputate degli scommettitori internazionali (Ladbrokes, William Hill e Paddy Power) si erano premurate di ritoccarne la quota, portandola da 8,00 a 3,00, scavalcando don Abba Mussie Zerai, il missionario che ha fondato l’agenzia di cooperazione per lo sviluppo Habeshia (6,00) e papa Francesco (7,00). Il pontefice, dopo essere stato in testa ai pronostici (con Zerai) sino a mercoledì 7, a quel punto si ritrovava a condividere la terza piazza assieme al medico e attivista congolese Denis Mukwege e alla Campagna internazionale per l’abolizione delle armi. Persino il New York Times, lo scorso 11 febbraio, si era avventurato in inconsueti elogi, quasi una consacrazione, definendola “leader del mondo libero”, con gli stessi toni che furono usati per John Kennedy oltre mezzo secolo fa.

Invece i bookmaker non l’hanno azzeccata. E nemmeno i media, per i quali il riconoscimento alla Merkel pareva cosa fatta, quasi una formalità. A rileggere poi quell’articolo del New York Times ci accorgiamo che era stato scritto da un giornalista tedesco, Jochen Bittner, giurista di Francoforte e autorevole “opinion writer” del quotidiano statunitense, come di Zeit online dove tiene un blog. Dunque è lecito sospettare un certo patriottico impulso. Tuttavia la Merkel si era guadagnata i galloni di favorita de Nobel per la Pace con il suo ruolo di “wonderwoman” che dialoga con l’Islam, che sfida Putin l’illiberale, che combatte xenofobia e derive neonaziste, che tratta con Obama su clima e Medio Oriente, che apre le porte della Germania ai profughi disperati, per i quali esige dignità e rispetto.

Che cos’è successo perché la probabile investitura si trasformasse in trombata clamorosa? E’ che sul cammino ideale intrapreso dalla Kanzlerin verso l’Accademia Svedese si è frapposta la sagoma (ahim quanto mai reale) di una Volkswagen diesel sfumettante emissioni bugiarde. La Merkel è stata asfaltata – metaforicamente, s’intende – dal dieselgate quando ormai stava per raggiungere il marciapiede finale, quello che l’avrebbe portata nel pantheon della gloria. Arrotata, abbandonata sull’asfalto. Vittima dello scandalo. Complice, in quanto leader di un governo che, a livello regionale, è azionista della casa automobilistica: molti giornali tedeschi l’hanno accusata senza mezzi termini: “Il governo di Berlino non poteva non sapere dell’uo di software manipolati”. Sperava di scantonare la discesa agli inferi, povera Angela privata delle ali.

Ma la caduta del gruppo VW è stata non solo un Grande Imbroglio Industriale, ha spennellato di nero la Germania tutta, trascinandola nel baratro della vergogna globale, come globale è la VW. Si è incrinata forse indelebilmente l’immagine e la reputazione di un Paese che sino a metà settembre si fondavano su solidi lineari principi. Germania=fiducia. la frode che minaccia di travolgere la Volkswagen ha colpito il mito ben coltivato dell’azienda Germania. Col rischio iceberg. Ossia che lo scandalo VW non sia altro che la parte emersa di qualcosa di più inquietante. Il lato oscuro del capitalismo industriale. Il vanto tedesco che la Merkel ha spesso enfatizzato.

Sì, deve essere proprio questa la ragione del no ad Angela Merkel. Appena una settimana prima che esplodesse il caso, sulle pagine del quotidiano Le Monde (10 settembre 2015) era stato pubblicato un editoriale (non firmato, quindi espressione della direzione) intitolato “Angela Merkel, fierezza dell’Europa”, e nelle primissime righe si poteva leggere: “la piccola musica s’installa su Internet: e se Angela Merkel ricevesse il Premio Nobel per la Pace?”, insomma il tam tam c’era, eccome, soprattutto in relazione al fatto che la cancelliera tedesca si posta all’altezza del problema affrontando la crisi migratoria senza precedenti che aveva colto impreparato il Vecchio Continente.

La Merkel aveva ampiamente riscattato l’intransigenza tedesca mostrata nei confronti della Grecia – ma in quell’occasione i tedeschi avevano posto la questione in termini prettamente finanziari. Nel caso dei profughi e dei migranti, la Merkel ha puntato sui “valori” universali dell’accoglienza, della solidarietà, dell’altruismo e non dell’egoismo, dimostrando una sensibilità particolare nei confronti dei rifugiati di guerra. Per la Merkel, il principio era molto semplice: un rifugiato ha diritto all’asilo. Dal giorno in cui si è eretta paladina dei diritti dei più indifesi, la Merkel si presa sulle spalle la responsabilità di difendere e ricostruire l’unità europea, cercando sponda in Francia e in Italia. Ma non le è bastato. La sgasata Volkswagen l’ha imbrattata crudelmente.

E proprio venerdì 9 ottobre, il giorno dell’assegnazione, il quotidiano economico Handelsblatt s’interrogava sull’immagine della Merkel, contrapponendola quella che di lei hanno all’estero, al punto da farne una personalità in lizza per il Nobel della Pace, e quella che di lei hanno i connazionali, in bilico tra aspre critiche ed elogi per la sua chiarezza: “Traumtänzerin oder Friedensengel?” titola il giornale, “Equilibrista o angelo della pace?”.

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