Svetlana Aleksievič è la prima giornalista a vincere un premio Nobel con libri da cronista, non solo la prima bielorussa a vincere un Nobel – e proprio alla vigilia delle elezioni presidenziali dove Aleskander Lukašenko conquisterà probabilmente l’ennesima vittoria bulgara e il quinto mandato. I suoi libri – scritti in russo -, secondo una definizione corrente, appartengono al genere della “prosa d’arte documentaristica”. Le etichette lasciano il tempo che trovano, e “se ne occupino i bibliotecari” come diceva Giuseppe Pontiggia. Ma in sostanza si tratta di inchieste giornalistiche sotto forma di intervista su vari temi: La guerra non ha un volto di donna, sulle donne che hanno partecipato alla seconda mondiale, Ragazzi di zinco, sull’invasione sovietica dell’Afghanistan, Incantati dalla morte, sui suicidi seguiti al crollo dell’Unione sovietica, Preghiera per Černobyl’ e infine Tempo di seconda mano, sulle vite della gente più o meno comune dopo il crollo del comunismo, tra miseria, nuovi ricchi e nuovi conflitti.

Si tratta di testi editi dall’85 a oggi – quindi nell’arco di trent’anni -, e costruiti come un coro di voci, un susseguirsi di interviste dove gli uomini e soprattutto le donne dell’ex Unione sovietica si raccontano. Sono interviste strutturate non in modo tradizionale – non botta e risposta, per intenderci – ma come monologhi con grande attenzione ad aspetti intimi, ai sentimenti, alle emozioni, rimasti impigliati e nascosti nella dura materia della realtà storica. Non ci sono domande, né presentazioni del soggetto che parla. Solo qualche riga in corsivo qua e là per dire il nome dell’intervistata e magari il luogo.

L’autore si riserva lo spazio di una breve introduzione. In genere gli intervistati non sono gente importante o famosa. Nondimeno ha avuto vite incredibili, spesso destini difficili, sofferto cose qui inconcepibili. Dopo il crollo dell’Unione sovietica la Aleksievič ha continuato a fare giornalismo così, con i libri. Viaggiando e incontrando persone. Non registrando quando il soggetto intervistato aveva paura di lasciare traccia della voce. Come i clandestini tagiki che vivono nei sotterranei di una stalinka, un palazzo staliniano, a Mosca, e lavorano nei cantieri, senza norme di sicurezza e in balia della polizia corrotta e delle bande di naziskin russi. Li chiamano “facce nere” o “culi neri” ma senza di loro il boom edilizio di Mosca non poteva esserci…Oggi la loro vita vale un Nobel e non vale niente.

Le interviste che riguardano i clandestini tagiki si possono leggere – tra altre di tema diverso – in Tempo di seconda mano, l’ultimo libro che la Aleksievič ha scritto, uscito in Italia con Bompiani l’anno scorso. I tre libri precedenti, Ragazzi di zinco, Incantati dalla morte e Preghiera per Černobyl’ sono stati pubblicati in Italia da e/o, casa editrice romana che in passato ha dedicato molta attenzione all’Est Europa – da Kisch a Hrabal, per fare solo un paio di nomi – ma ha in seguito spostato il campo di interesse verso altri territori narrativi. E così l’ultimo libro, Tempo di seconda mano, lo ha fatto la Bompiani di Elisabetta Sgarbi, da poco confluita nella Mondadori. Farà anche il primo, quello d’esordio, mai uscito in Italia, La guerra non ha volto di donna.

Qualcuno dice che il Nobel è stato assegnato alla solita illustre sconosciuta e per dare uno schiaffo a Putin al tempo della guerra in Ucraina e dell’intervento russo in Siria per sostenere Assad. E qualcosa di vero forse c’è in questa interpretazione. Ma ciò non toglie che Svetlana Aleksievič sia una grande giornalista e scrittrice, che ha già fatto incetta di premi in mezzo mondo (Tempo di seconda mano ha vinto un premio come miglior libro dell’anno in Francia). Una specie di Kapuscinski al femminile anche se con una maggiore propensione a far parlare gli ultimi in modo corale stando lontana dall’inchiesta giornalistica classica. E, almeno nella forma, i suoi libri sono più simili a un “romanzo collettivo”, sia pure senza elementi di fiction. Dunque la scelta del Nobel cade su un candidato di valore e getta luce su un’area dell’Europa – la Bielorussia in particolare – che è una “terra incognita”, come dice la Aleksievič stessa. Difficile da capire per chi ci abita, figuriamoci per noi. Almeno in questi tempi di eterna transizione.

Ma come è stato questo passo dal Faro del comunismo e dalla Gazzetta rurale al massimo riconoscimento letterario mondiale? Svetlana Aleksievič è nata a Stanislav il 31 maggio del 1948, vicino a Ivano-Frankovsk, Ucraina (città intitolata allo scrittore Ivan Frank). Da padre bielorusso e madre ucraina. Presto si è trasferita in Bielorussia, dunque in un altro paese dell’Unione sovietica ma poco oltre il confine ucraino. Ha concluso gli studi superiori nel distretto di Gomel. Poi ha lavorato come insegnante – secondo una tradizione familiare – di lingua tedesca e storia e come giornalista nella Pravda di Pripjat’, La verità di Pripjat’. Pripjat’ per intenderci è la città che si trova vicino a Černobyl’ . E quando si parla del disastro di Černobyl’ si parla dell’incidente alla centrale che si trova vicino a Pripjat’, città ora disabitata.

Nel 1972 ha terminato la facoltà di giornalismo alla Bgu, l’Università di stato della Bielorussia a Minsk, e ha iniziato a lavorare al Majak Kommunizma, Il faro del comunismo, giornale di quartiere dei distretto di Berëz Brest. Dal ’73 al ’76, ha lavorato per la Sel’skaja Gazeta, La gazzetta rurale. Sempre in Bielorussia. Dal 1976 all’84 ha avuto un ruolo direttivo del giornaleNëman (Nëman è un fiume). Come dire: L’Adige. Nell’83 è entrata nell’Unione degli scrittori sovietici.

Tra i maestri che cita per i libri c’è Adamovič. Partigiano e intellettuale bielorusso, attivista al tempo di Černobyl’ , essendo la Bielorussia la regione più colpita dal fall out radioattivo. A lui è stato intitolato un premio in Bielorussia. Il primo libro la Aleksievič lo ha scritto nell’83, La guerra non volto di donna. E racconta le donne che hanno partecipato alla Grande Guerra Patriottica, come in Unione sovietica veniva chiamata la seconda guerra mondiale. È comparso sul giornale Oktjabr’, Ottobre, all’inizio dell’84, e alcuni capitoli sono usciti sul giornaleNëman. La stampa del libro è stata ritardata di due anni in quanto la censura rilevava nel testo elementi come “pacifismo”, “naturalismo” e “dissacrazione delle gesta eroiche delle donne sovietiche”. Alla fine degli anni ’80 il libro ha venduto due milioni di copie.

La Aleksievič dimostra come un impegno profondo e vasto nel raccontare la vita della gente in mezzo ai grandi e terribili eventi storici – passati e recenti -, portato avanti per trent’anni, possa alla fine dare i suoi frutti, che il giornalismo, fatto con umiltà e serietà, può ancora essere una strada. Adesso la scrittrice bielorussa avrà molte risorse per continuare a farlo in assoluta libertà. Lukašenko permettendo. Il dittatore bielorusso si è complimentato con lei per la vittoria ma due persone non potrebbero essere più lontane. Lei è voluta tornare da un lungo esilio in Europa nel 2013 per stare vicino alla famiglia, per non perdere qualcosa che non si può recuperare con gli anni. E anche per stare in mezzo alla gente di cui scrive. In realtà non se n’era mai andata del tutto.

Durante la conferenza stampa per il Nobel ha detto che in Bielorussia: “Fanno che io non ci sia, non pubblicano i miei libri, non posso fare discorsi da nessuna parte, non mi ricordo che la tivù bielorussa mi abbia fatto una chiamata”.

Nel World Press Freedom Index, la Bielorussia è al 157 posto su 180 paesi nel 2015. In fondo in fondo.

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