Kloppmania” titola a nove colonne in prima pagina il quotidiano locale, altrimenti generalista, Liverpool Echo. L’arrivo di Jurgen Klopp sulla panchina del Liverpool, città in cui il calcio “non è questione di vita o di morte, ma questione molto più importante”, come diceva il mitico allenatore Bill Shankly, ha assunto infatti i contorni dell’epifania messianica. Dopo il fallimento dell’esperienza di Brendan Rodgers, sublimata da quella maledetta scivolata con cui capitan Gerrard due anni fa permette al Chelsea di vincere sul campo di Anfield Road quel titolo che a Liverpool attendono invece da oltre un quarto di secolo, serviva una svolta non solo tecnica ma che rasentasse il misticismo, che ridesse slancio e fiducia non solo alla squadra ma a un’intera città.

E allora ecco l’uomo che in un’amichevole di un paio di estati fa, rientrando nel tunnel degli spogliatoi di Anfield, posa la mano sullo stemma del Liverpool come fosse una sacra reliquia, che in tempi non sospetti confessa di conoscere a memoria l’inno del club “You’ll never walk alone”. Ecco arrivare il profeta di una nuova era: Jurgen Klopp. “Sono un Normal One” ha esordito alla conferenza stampa di presentazione, parafrasando e sfottendo lo “Special OneMourinho, prima di raccontare la sua come “una filosofia di gioco emotiva”. Questo è Klopp, una carriera da giocatore (e poi allenatore) tutta nel Magonza, città del carnevale, delle rivolte e di uno dei primi tentativi di autorganizzazione con la creazione nel XIII secolo della Libera Città di Magonza. E in questa città ribelle e insofferente al potere si rispecchia anche la squadra da lui allenata, che in 7 anni passa dalla seconda serie alla qualificazione in Coppa Uefa.

Poi il Borussia Dortmund, dove in altri 7 anni vince due campionati (uno con la doppietta con la Coppa di Germania) e raggiunge la finale di Champions persa contro il BayernMa al di là dei trofei, è l’organizzazione dell’insieme a essere perfetta. Un mix di giovani usciti dal vivaio e di acquisti a basso costo valorizzati al massimo, un calcio veloce, collettivo, intenso, con un pressing asfissiante che ruba l’occhio su ogni campo. Si passa dal Totaalvoetbal (calcio totale) dell’Ajax di Michels o del Milan di Sacchi, i due riconosciuti maestri di Klopp, al Vollgas Fußball (calcio a tutta birra) del Borussia che lo stesso tecnico definisce “calcio heavy metal“.

La tuta, il cappellino, gli occhiali, il ciuffo biondo frutto di trapianto tricologico, le esultanze pazze, i pianti commossi e le sigarette nello spogliatoio sono il marchio di fabbrica di un tecnico che si fa anche personaggio (e testimonial pubblicitario di note aziende). Laureato in Scienze dello Sport con una tesi sul camminare, a Magonza porta la squadra per cinque giorni in una baita svedese senza cibo né elettricità, e a Dortmund organizza serate con i tifosi in cui offre birra a tutti. Abile affabulatore, il suo slogan è il sogno per le orecchie di ogni tifoso: “Non lavoro per guidare la squadra migliore al mondo, lavoro per poterla battere”. Anche così nasce la Kloppmania. Appena è ufficiale la notizia del passaggio al Liverpool, l’account del suo vecchio club gli augura il meglio con un fotomontaggio in cui passeggia sulle strisce pedonali di Abbey Road come il quinto Beatles.

E l’account del nuovo club ringrazia con la foto dell’immenso striscione con cui i tifosi del Westfalenstadion lo salutano nel giorno dell’addio.

Il passaggio di consegne dal meraviglioso muro giallo al leggendario muro rosso, la mitica Kop che da settimane lo aspettava con lo slogan Klopp For The Kop, è sigillato. A Liverpool, Klopp ha firmato per 3 anni e mezzo con stipendio annuale di 7 milioni, ma soprattutto, assicura lui, avrà il pieno controllo sul mercato e sullo sviluppo della squadra. Quello che faceva a Dortmund, quello che ultimamente non è stato permesso di fare a nessun tecnico del Liverpool, con pessimi risultati. Anni fa Klopp presentò l’avveniristica Footbonaut, una tecnologica gabbia in cui il giocatore imparava a ricevere, controllare e lanciare il pallone a velocità sempre più elevata.

Togliendo i moderni sensori e trasduttori, la macchina ricorda in maniera impressionante la prima gabbia di legno che il mitico Bill Shankly costruì mezzo secolo fa, inchiodando le assi con le sue mani, sul campo di allenamento del Liverpool. Anche qui, il passaggio da Shankly a Klopp inteso come eterno ritorno, non potrebbe essere più profetico. Liverpool è città rossa e rivoluzionaria, e nella Kop da tempo troneggia uno striscione che rifacendosi ai cinque maestri del comunismo riproduce le facce dei grandi tecnici del club: Shankly, Paisley, Fagan, Dalglish e Benitez. Se Klopp manterrà le promesse, un giorno ci sarà anche lui.

Twitter @ellepuntopi

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