Cultura

Gianrico Carofiglio e il linguaggio della politica: ovvero parlare senza impegnarsi a dire la verità

In 'Con parole precise. Breviario di scrittura civile' (edito da Laterza), l'ex magistrato e senatore Pd riflette sull'importanza dei linguaggi. "Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo e far si che ogni parola vada a segno" ha detto a ilfattoquotidiano.it

di Elisabetta Reguitti

Quanto si compiacciono politici, giuristi, burocrati e giornalisti della propria parola detta o scritta che sia? Ma soprattutto, quanto comprendono gli interlocutori ai quali si rivolgono? Primo Levi scrisse: “Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far si che ogni parola vada a segno”. Responsabilità è anche aver deciso di realizzare un libro sull’uso del linguaggio, come nel caso di Gianrico Carofiglio e il suo Con parole precise. Breviario di scrittura civile edito da Laterza.

Accantonati toga da magistrato e panni da senatore Pd (scranni che ha peraltro lasciato per essere “solo” uno scrittore) l’autore ha recuperato e lavorato su un suo disagio di cui parla in questa conversazione. “Avevo la necessità di affrontare il disagio, a volte anche il disgusto per il modo con cui viene maneggiata la lingua nei luoghi del potere: nella politica, nel diritto, nella burocrazia e anche nel giornalismo. Un disagio che nasce dalla consapevolezza che la democrazia è fatta di parole precise, chiare, che dicano la verità. Dire la verità significa chiamare le cose con il loro nome. Dare il nome giusto alle cose è un atto rivoluzionario, diceva Rosa Luxemburg. Chiarezza e democrazia; oscurità e autoritarismo, più o meno mascherato. Il libro parla di questa antitesi“.

L’approccio dello scrittore non è però da primo della classe pronto ad additare colpe, difetti e cedimenti. Al contrario pone la questione di come “migliorare l’impegno di ognuno, con i suoi mezzi e secondo le sue specificità, ad intervenire nel dibattito su ciò che può essere fatto oppure modificato. Più in generale sulla qualità della democrazia e nella vita pubblica”. Non è la prima volta che Carofiglio si occupa del potere del linguaggio e della sua forza: lo aveva già fatto con L’arte del dubbio di Sellerio e La manomissione delle parole per Rizzoli, ma questa volta tratta l’argomento con un testo che si presta ad essere un manuale pratico per tentare di perseguire ciò che Carlo Magris definì come: “La correttezza della lingua è la premessa della chiarezza morale e dell’onestà. Molte mascalzonate e violente prevaricazioni nascono quando si pasticcia con la grammatica“.

Il breviario di scrittura civile di Carofiglio inizia con l’analisi dei diversi generi di scrittura soffermandosi in particolare su quella con “destinazione pubblica” e per la quale realtà e chiarezza dovrebbero essere un requisito essenziale. “Dare suggerimenti su come scrivere bene è sempre molto rischioso – precisa – Perché è facile, nonostante tutta l’attenzione e la buona volontà, essere i primi a cadere in quelli che additiamo come errori“.

Con parole precise si articola in due parti, un capitolo è dedicato alle “parole degli altri” ovvero: limpido esempio di manomissione storica di lingua e dunque di sostanza. La scrittura civile (intesa come chiara, democratica e rispettosa delle idee) per Carofiglio può essere un antidoto alla pessima abitudine di “parlare e dire qualcosa senza che ciò comporti un impegno di verità e correttezza nei confronti dei destinatari“. Un’abitudine consolidata dell’ambiente politico che lo scrittore ripercorre in modo scientifico attraverso le metafore utilizzate da Renzi, Bersani e Berlusconi. “La metafora è più potente della similitudine – spiega – perché quando è ben concepita costringe la mente a un cambio di piano, un vero e proprio scarto della conoscenza o dell’intuizione: una figura retorica che nel tempo ha saputo addirittura indurre a trasformazioni culturali, basti pensare a “il tempo è denaro”. Eppure i politici sembrano abusarne, pasticciando con le parole e senza pensare alle eventuali ricadute negative che possono provocare sul pubblico/elettore”. Tra i numerosi esempi argomentati da Carofiglio troviamo lo “scendere in politica” che evoca passione producendo addirittura identificazione (fosse solo quella sportiva in un paese malato di calcio come l’Italia) rispetto al “salire in politica” che al massimo richiama un contenuto polemico, incapace di produrre qualsiasi effetto emotivo sui destinatari ma che soprattutto, non significa niente.

e.reguitti@ilfattoquotidiano.it

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