Tutto era innominabile ma niente era inimmaginabile. Questo flirt mistico con l’idea del “peccato” – questa sensazione che fosse possibile spingersi “troppo oltre” e che molti lo stessero facendo – ci riguardava molto nel 1968 e 1969 a Los Angeles. Una folle e seducente tensione vorticosa stava montando nella comunità. L’agitazione cominciava ad avere il sopravvento. Ricordo un periodo in cui i cani abbaiavano ogni notte e la luna era sempre piena. Il 9 agosto 1969, ero seduta nella parte poco profonda della piscina di mia cognata a Beverly Hills, quando lei ricevette una telefonata da un’amica che aveva appena saputo degli omicidi a casa di Sharon Tate Polanski in Cielo Drive. Il telefono squillò molte volte nelle ore successive. Questi primi resoconti erano confusi e contraddittori. In una telefonata si parlava di “cappucci”, nella successiva di “catene”. C’erano venti morti, no, dodici, dieci, diciotto. Si immaginavano masse di neri, si incolpavano brutti trip. Ricordo molto chiaramente tutta la disinformazione di quel giorno, e ricordo anche questo, e vorrei tanto non ricordarlo: ricordo che nessuno era sorpreso.

Il titolo sembra un tributo all’album doppio del 1968 dei Beatles ma, se si esclude la parte del libro dedicato all’omicidio di Sharon Tate e di altre tre persone, omicidio commesso dalla Manson Family e ispirato, tra le altre deliranti motivazioni schizoidi, dai brani Piggies ed Helter Skelter presenti in quel disco dei Fab Four, il testo della giornalista e scrittrice californiana Joan Didion va visto come un album bianco della cultura statunitense riempito con emozioni, impressioni e immagini personali che sfociano nel collettivo.

DidionThe White Album (pubblicato in Italia da Il Saggiatore e tradotto da Delfina Vezzoli) è un libro che non può essere catalogato né come un’antologia di racconti, né come una raccolta di saggi e reportage. Si tratta di un’originale e riuscita sequenza di aneddoti che formano la complessa e interessante visione sociale dell’autrice. Si passa dalle sedute di registrazione di The Doors aspettando un Jim Morrison scomparso nel nulla, alle critiche di un certo machismo made in Pantere Nere; dalla critica all’ottusità borghese di Reagan e signora, alle descrizioni di luoghi simbolo della California per raccontare le potenzialità e le debolezze di chi la vive; dal reportage alle Hawaii utilizzato per esporre una personale crisi matrimoniale che diventa specchio collettivo e si tramuta nell’analisi di un opera straordinaria quale fu Da qui all’eternità di James Jones, alla scomposizione dei film facenti parte del filone dei bike movies per denunciare la grettezza e l’ignoranza endemica di una certa America:

I bike movies sono fatti per tutti quei figli di un ceppo di “buzzurri indifferenti” che crescono in modo insensato nell’Ovest e nel Sudovest, ragazzi la cui vita è un’interminabile oscuro rancore contro un mondo che pensano di non aver mai creato. Questi ragazzi sono, sempre di più, dappertutto, e il loro stile è quello di un’intera generazione.

Joan Didion, autrice rappresentativa di una letteratura elegante e difficilmente etichettabile in qualche categoria, racconta attraverso The White Album la sua personale crescita umana e politica, da sostenitrice del repubblicano Barry Goldwater nella sfida contro il democratico Lyndon B. Johnson, il successore di John Fitzgerald Kennedy, alle posizioni progressiste e libertarie maturate con l’avvento di Ronald Reagan. Un libro scritto nel 1979 e che il New York Times definì all’epoca “la prosa più bella di oggi”. Un testo ancora attualissimo, capace di far rivivere icone e antieroi di un ventennio formidabile, con la forza che solo le grandi opere possiedono, quella di tramutare una visione oggettiva in un affresco psicologico e sociale di un’intera collettività.

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