L’unica cosa certa è che in Italia c’è corruzione. Quanta, non lo sa nessuno. Anche se a guardare la sfilza di scandali giudiziari verrebbe da dire che ce n’è molta, anzi troppa. Eppure oggi, alla presentazione del rapporto Onu sulla corruzione in Italia, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha dichiarato che gli indici sulla corruzione basati sulla percezione non “valorizzano i progressi” compiuti dal nostro Paese in termini di prevenzione e contrasto al fenomeno. Quindi che le pagelle negative date all’Italia da organismi internazionali come la World Bank o Transparency International non ci rendono giustizia.

Certo la “cattiva reputazione” dell’Italia genera un circolo vizioso che limita gli investimenti e non aiuta il Paese a progredire, eppure, per quanti passi avanti siano stati fatti sul piano normativo, soprattutto con la legge firmata dall’ex guardasigilli Paola Severino, resta il fatto che gli alti livelli di corruzione dell’Italia sono testimoniati da indici diversi da quelli della percezione. Anche trascurando la cifra dei 60 miliardi come costo della corruzione, perché priva di fondamento scientifico, basta prendere per buoni i calcoli della Corte dei Conti, secondo cui la corruzione genera il 40% di spesa in più nei contratti per opere, forniture e servizi pubblici dello Stato, per giungere ad una stima superiore ai 100 miliardi l’anno.

Anche il rapporto presentato oggi, che riconosce i progressi del nostro Paese nell’attuazione di gran parte delle indicazioni contenute della Convenzione Onu contro la corruzione, indica comunque una serie di problemi aperti su cui occorre ancora lavorare. A partire proprio dalla “capacità di raccogliere ed analizzare i casi e le statistiche”, condizione imprescindibile per capire la dimensione reale del fenomeno, senza contare che gli open data sono ormai considerati tra principali strumenti di trasparenza. Uno degli aspetti critici rilevati dal rapporto riguarda il nodo insoluto della prescrizione, su cui il documento riconosce gli effetti positivi dell’innalzamento delle pene per i reati di corruzione, ma sottolinea ancora una volta che “la lunghezza dei procedimenti giudiziari è un elemento di preoccupazione” e dunque che esiste la necessità di una “riforma” di questo istituto, oggetto di eterno scontro nella maggioranza che sostiene il governo Renzi. Problematico appare anche l’istituto del patteggiamento, che spesso riduce le sanzioni per i reati di corruzione o che può rendere vani lo sforzo di favorire le denunce o le testimonianze nei processi. Nel rapporto si legge che “in alcuni casi gli accordi tra accusa e difesa che si concludono con il patteggiamento, influenzano l’attuazione di questa disposizione”. Tra gli esempi più calzanti c’è l’Expo: l’inchiesta sulle tangenti negli appalti del grande evento milanese è finita sotto i riflettori internazionali, ma si è conclusa con il patteggiamento di tutti i principali imputati, che così hanno evitato qualsiasi pena detentiva.

Un altro aspetto critico riguarda poi le tecniche di indagine, alcune delle quali “possono essere utilizzate sono per i reati più gravi, che attualmente, ai sensi della Legge 146/2006, non includono la maggior parte dei reati di corruzione”. Il riferimento è alle operazioni sotto copertura, oppure alla definizione della figura dei “pentiti” della corruzione, come per le indagini di mafia, sollecitata da diversi esponenti della magistratura più impegnata su questo fronte. Sul punto si legge: “L’Italia ha parzialmente recepito la disposizione in esame ed è, quindi, consigliabile includere i reati di corruzione nella lista dei reati più gravi per consentire l’uso di speciali tecniche investigative nelle indagini di tali reati”.

Tra le raccomandazioni figura anche il rafforzamento delle procedure disciplinari contro i funzionari pubblici accusati o condannati per reati di corruzione. Un tema su cui secondo l’Onu è già stato compiuto un passo in avanti con l’approvazione del codice di condotta dei dipendenti pubblici, ma sulla cui attuazione sono raccomandati ulteriori sforzi. Su questo punto il rapporto sottolinea il caso paradossale dei regali, vietati per le persone incaricate di pubblico servizio, sui quali la “legge italiana non offre una soglia specifica, monetaria o altro, per distinguere i casi in cui l’oggetto è un ‘dono abituale’ da casi in cui costituisce una tangente”. È il giudice a decidere caso per caso, tanto che anche a causa di questo vulnus anche “un set completo di mobili da cucina è stato qualificato come dono” dai giudici, che lo hanno valutato come “regalo ammissibile”.

Altra raccomandazione riguarda i testimoni, rispetto ai quali il nostro Paese non ha ancora “attuato la parte della convenzione che ne prevede il trasferimento all’estero”. E ancora, il superamento del limite della normativa italiana, secondo la quale un’indagine per corruzione tra privati “può essere avviata solo a partire dalla querela di una vittima del reato o in caso di distorsione della concorrenza”. E “l’estensione dell’appropriazione indebita nel settore privato a tutti i tipi di proprietà e la rimozione del requisito di una denuncia della vittima”. Insomma tanto lavoro da fare, soprattutto nelle aule parlamentari dove molti di questi provvedimenti sono oggetto di una contesa politica molto ben percepita.

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