L’80% dei Comuni in Italia ha case, scuole, ospedali in zone a rischio idrogeologico, franose o tra letti e rive dei canali. Fosse solo questo: un terzo è stato costruito negli ultimi dieci anni, cioè quando erano già in vigore i vincoli dettati dal Piano per l’assetto idrogeologico, cioè lo strumento che le Regioni utilizzano per la programmazione degli interventi per la difesa del territorio. Strumento, a quanto pare, inutile. Secondo l’ultimo rapporto di Legambiente infatti sono 186 i Comuni in cui si è edificato in aree a rischio nell’ultimo decennio. Nel 79% dei casi si tratta di abitazioni, nel 17% di interi quartieri. E peggio ancora: meno del 5% dei Comuni con zone abitate a rischio ha iniziato delocalizzazioni. Così la “missione prevenzione” del governo Renzi è già una corsa contro il tempo. Italia Sicura, il programma di Palazzo Chigi, prevede 7100 interventi in tutta Italia, per un totale di 21 miliardi di euro, di cui, per il momento, disponibili poco più di due, dice Gian Vito Graziano, presidente del consiglio nazionale dei geologi e membro della cabina di regia di Italia Sicura. Un piano che parte però con un handicap: quello di non avere una struttura di controllo della qualità dei progetti presentati dalle Regioni. Il rischio quindi, spiega Graziano, è che “diventi un distributore di soldi senza risolvere il problema”.

Graziano, in Italia lo stato di dissesto si è sempre scontrato con una forte carenza pianificatoria. Lei crede che Italia Sicura sia un efficace strumento di prevenzione?
Credo che uno Stato serio dovrebbe saper far funzionare la propria macchina amministrativa senza il bisogno di creare strutture di missione come questa, che comunque agisce in maniera emergenziale. Ma purtroppo queste sono le condizioni in cui ci siamo trovati e dovevamo intervenire. Come struttura, con tutti i limiti di una struttura piccola, come personale intendo, sta funzionando bene per tutta una serie di risultati che è già riuscita a ottenere. E non parlo solo di reperimento di fondi, ma anche quello di aver creato un unico database con le diverse necessità delle venti regioni sotto un unico standard di lavoro. Quando abbiamo iniziato a chiedere le carte del rischio idrogeologico ai vari enti per capire quale fosse la situazione in Italia, abbiamo trovato il caos; c’erano carte una diversa dall’altra e alcune completamente in contrasto con la realtà: zone a alto rischio idraulico, ad esempio, risultavano non a rischio. Da questa attività è emerso tuttavia che i famosi 44 miliardi di euro che si diceva fossero necessari, perlomeno dal ministro Prestigiacomo in poi, per mettere in sicurezza l’Italia non hanno senso, perché siamo complessivamente davanti a una spesa di 21 miliardi di euro.

I fondi? Per il momento abbiamo reperito quasi 2,2 miliardi di euro delle risorse non spese dal 1998

E quanti ce ne sono a disposizione?
Per il momento abbiamo reperito quasi 2,2 miliardi di euro delle risorse non spese dal 1998. In più ci sono i 654 milioni di euro già stanziati dal Cipe per il piano delle aree metropolitane, che è un piano più piccolo ma estremamente importante perché stiamo parlando di Genova, Milano, Torino, Firenze, Roma, Catania e via dicendo, ossia le aree più densamente popolate.

Quindi mancano finanziamenti?
Per il momento il problema è un altro: i soldi ci sono ma i progetti no. La maggior parte delle Regioni, che sono quelle incaricate di presentare il piano delle opere di mitigazione del rischio, è alla fase dei progetti preliminari, che, detta in maniera un po’ volgare, sono quattro fogli con delle linee generali. Per poter sbloccare finanziamenti servono progetti esecutivi che non stanno arrivando. In Italia in questo momento non abbiamo la capacità di progettare. In parte per incuria delle pubbliche amministrazioni, in parte per limiti burocratici: oggi, per le procedure di legge per le opere pubbliche, se un Comune non ha la copertura finanziaria non può incaricare la progettazione. Di fatto non abbiamo più progetti e quando ci sono la qualità è spesso bassa, proprio perché non ci sono i finanziamenti che permettono al progettista di fare le dovute analisi. E succede che alcuni progetti, non solo non hanno raggiunto l’obiettivo, ma hanno anche creato grossi problemi.

Un esempio?
Olbia: una zona dove storicamente c’erano tutti questi corsi d’acqua che però non davano problemi, nemmeno in caso di piogge abbondanti. Ora ci sono alluvioni ogni anno. C’è sicuramente il cambiamento climatico da tenere in considerazione, ma il punto è che hanno realizzato una serie di opere dentro gli alvei che sono state dannose.

Per il momento il problema è un altro: i soldi ci sono ma i progetti no

Italia Sicura non ha una struttura di controllo dei progetti che vengono presentati dalle Regioni; non si rischia di finanziarne altri dannosi?
Sì, il rischio c’è. Da geologo, questo è l’aspetto per me più interessante, tanto che quando sono arrivato nella cabina di regia ho posto subito il problema, chiedendo appunto “ma sappiamo cosa finanziamo?”, “non si rischia di diventare distributori di soldi, senza risolvere il problema?”. Oltretutto se arriva un progetto cantierabile, dobbiamo sbloccare subito i finanziamenti per non rallentare il progetto. Quindi abbiamo pensato di intervenire a monte cercando di creare delle linee guida per i progettisti in modo che sappiano che se il progetto non ha tutti i requisiti non può essere finanziato. Il documento con le linee guida dovrebbe essere pronto entro fino ottobre e a quel sta al presidente del consiglio trasformarlo in un’ordinanza.

Questo governo sembra aver dato attenzione, ma anche perché non era possibile girarsi dall’altra parte

Quanti cantieri sono stati aperti ad oggi e riuscirà Italia Sicura a terminare la sua “missione” entro i sette anni come da progetto?
Da giugno 2014 sono partiti 642 cantieri per una somma complessiva di 1,49 miliardi di euro, ma il piano nazionale è ancora in fase di redazione proprio perché non arrivano i progetti. Non so quanto tempo ci vorrà per chiuderli tutti, se 7 o 17 anni. Tutto dipende dalla volontà politica e dalla priorità che i governi danno al tema. Questo governo sembra aver dato attenzione, ma anche perché non era possibile girarsi dall’altra parte. Certo, per la buona riuscita del piano, conta anche l’informazione. Se infatti si costruisce un’opera che riduce il rischio del 60 per cento, perché non potrà mai eliminarlo del tutto, il restante lo deve mettere il cittadino. C’è l’abusivismo sì, ma anche il comportamento. Cito spesso Fukushima: quando c’è stato il terremoto le persone sono andate tutte sul tetto perché sapevano che sarebbe arrivato lo tsunami. Da noi succede il contrario: la gente va negli scantinati.

Articolo Precedente

Cowspiracy arriva in Italia: il documentario che sfida il movimento ambientalista

next
Articolo Successivo

Alluvione Olbia, la città “esplosa” in 10 anni: cemento fin dentro i torrenti. Pronti 81 milioni per cantieri, solo 16 sbloccati

next