E’ felice, finalmente, Vincenzo Nibali, dopo una stagione avvelenata da polemiche e non semplici chiarimenti in seno alla squadra, dopo la sconfitta al Tour de France e la brutta figura del traino alla Vuelta, costata l’espulsione e una palata di melma. Pure il Mondiale di Richmond è finito ben lontano dai suoi desideri. Gli restava il Giro di Lombardia, nel cui albo d’oro c’è tutta la storia nobile del ciclismo: la “classica delle foglie morte”, la malinconia di Prévert e la voce di Yves Montand fatta a pedali, il commiato dei ciclisti, un fine stagione che per alcuni diventa epoca di saldi e per pochi altri, invece, l’ultima grande occasione. Pedalate di classe, di rabbia, di commozione: c’è stata la lacrima sul viso. Non di Bobby Solo. Ma dello Squalo, al secolo Nibali da Messina: quando ha dedicato la vittoria alla moglie Rachele, nel giorno del suo compleanno. Un po’ di ciclismo antico, in una kermesse da bicicletta 3.0.

Nibali lo Squalo voleva questo Giro della Lombardia che proprio quest’ottobre compiva 110 anni. E l’ha avuto. Venti minuti di fuga in discesa, dopo avere inutilmente tentato di staccare gli avversari in salita, al Cittiglio. Diciassette chilometri e mezzo ventre a terra, da o la va o la spacca. Con le forze residue di una stagione sferzante. Muscoli come le foglie morte che tappezzavano le strade nervose e bellissime attorno al lago di Como, sopra Bellagio, dopo il Ghisallo. Venti minuti da uomo solo al comando. Come nei sogni più belli. Arrivare e voltarsi indietro per controllare il vantaggio. Sollevare le braccia al cielo e poterlo fare senza alcuna ansia. La gioia profonda di vincere a due passi da casa, come una volta facevano Alfredo Binda, o Gino Bartali, “in bici ci metto quaranta minuti dal traguardo, conosco le strade dei colli che circondano Como come le mie tasche”.

Al Tour avevo visto un Nibali mai soddisfatto, nemmeno quando vinse la diciannovesima tappa da Saint-Jean de Maurienne a La Toussuire. Adesso sembra un altro, sprizza energia positiva, ha scacciato la fatica dei 245 chilometri corsi a tambur battente, “tutti sapevano che volevo fare mia questa corsa, ero molto controllato, si andava ad alto ritmo, però le gambe erano eguali più o meno per tutti”, spiega, e tu capisci che c’è un pizzico di malizia in quel “più o meno”, la sottile linea rossa che divide la vittoria dalla sconfitta, adesso può permettersi di regolare qualche conticino in sospeso, mentre gusta il sapore dolcissimo della rivincita, “paradossalmente devo ringraziare il grosso sbaglio della Vuelta, oh, uno sbaglio che non è stato solo mio – ecco il sassolino che si toglie dalle scarpette…- è stato in ultima analisi un bene, mi ha fatto ritrovare la cattiveria che avevo un po’ perso per strada”.

Così, può mettere in saccoccia un trofeo che consolida prestigio e dimensione epica. Lo specialista delle gare a tappe è anche uno che può vincere una delle cinque classiche “monumento”, “la gara di un giorno l’ho sempre avuta nel mio dna ciclistico, forse col passare degli anni ho perso l’esplosività necessaria, ma stavolta ho scaricato bene la rabbia accumulata in questi ultimi tempi nel modo giusto, e più efficace. Sui pedali”. Mai vittoria, per un corridore che sentiva pensieri scuri corrergli dentro, è stata più salvifica, e più terapeutica. Mentalmente. Professionalmente. La sconfitta del Tour aveva ridimensionato la caratura di Nibali, “anche se l’ho terminato in crescendo, la classifica era stata compromessa nella prima settimana…” (incidenti, agguati degli avversari, squadra non all’altezza di quella dell’anno mirabile 2014).

Sì, ammette, “ci sono stati momenti difficili, però penso di avere finito la stagione nella maniera migliore”. Da sette anni un italiano non riusciva a vincere una grande classica, e questa crisi del settimo anno l’ha domata lui, il siciliano che vive nel Canton Ticino, che è razionale come un tedesco, pragmatico come un inglese, orgoglioso come…un siciliano vero: “Non si vince se non hai temperamento e carattere. Quando le gambe non sono al massimo, si combatte con tanta volontà e ancor più grinta”. Sembra la ricetta di uno di quei guru che predicano come si diventa vincenti nella vita.

Diciamo che la vittoria di Nibali corona anche un anno a corrente alternata del nostro ciclismo. Nella sporta, abbiamo una Gand-Wevelgem (vinta dal trentottenne Luca Paolini, beccato ai controlli del Tour per una positività alla cocaina). Il secondo posto di Fabio Aru al Giro, la vittoria del sardo alla Vuelta. Il Giro di Lombardia completa il quadro, lo nobilita. E’ un’iniezione di fiducia per il nostro ciclismo che non naviga in buone acque, specie sul fronte degli sponsor e degli investimenti. Per essere competitivi a livello globale – essendo ormai il grande ciclismo un’impresa globale – occorrono un sacco di soldi. Una squadra come l’Astana di Nibali o la Sky di Chris Froome costa dai 25 ai 30 milioni di Euro l’anno. L’unica squadra italiana del WorldTour, la Lampre Merida, ne mette sul piatto una decina. anni). Non a caso, sono decine ormai i corridori italiani in diaspora, al servizio di squadra straniere: Aru e Nibali corrono per l’Astana del Kazakistan e ogni tanto devono accontentare i munifici datori di lavoro e correre dalle loro parti.

La rabbia calibrata di Nibali è pure frutto di queste situazioni. Gli piacerebbe correre per una squadra italiana, ma nessuna è in grado di soddisfarlo economicamente. Ci sono state, diciamo così, vistose incomprensioni con lo staff, e ne è sorta una stagione controversa, sbagliata non negli obiettivi ma nei risultati: appena una tappa vinta al Tour e il quarto posto, dopo il trionfo dell’anno precedente; l’espulsione per traino dopo due tappe alla Vuelta, la magra figura al Mondiale di Richmond sono ferite che se non vengono rimarginate subito rischiano di far male per tanto tempo. Nibali ha reagito con intelligenza. Ha gestito l’orgoglio del campione che ritrova fierezza e la capacità di reagire nell’unico modo che conta per chi fa agonismo ai massimi livelli: vincere. Vedi Bolt. Vedi Valentino Rossi.

“L’ho voluta, fortissimamente voluta”, ripete il Campione Ritrovato, “ho pianificato ogni dettaglio della corsa, ho studiato la novità del Cittiglio, l’ultima salita prima del traguardo di Como, ho soppesato ogni metro, i tempi, dove attaccare”. Si allena da queste parti. Memoria e conoscenza. Nulla è lasciato al caso. Non è stato un successo facile: in realtà Nibali non era al massimo, come del resto non lo erano i suoi avversari, come lui arrivati alla fine della stagione spremuti come limoni. Ma ha dimostrato caparbietà e lucidità nell’organizzare la strategia di corsa studiata con il direttore sportivo Giuseppe Martinelli ed applicata dai fidi scudieri dell’Astana (straordinario Diego Rosa che ha rintuzzato i nel momento cruciale i disperati contrattacchi di Moreno, Pinot e Valverde consentendo al capitano di involarsi al traguardo con un rassicurante vantaggio).

Ha giocato gli avversari nella discesa di Civiglio, a diciassette chilometri e mezzo dal traguardo di Como, sul lungolario Trento e Trieste. Passate sei ore di corsa durissima, dapprima sotto il diluvio, poi su e giù per salite che impiccano i corridori, compreso il feroce muro di Sormano, con punte sadiche del 25-27 per cento. E quei centodieci anni di storia alle spalle, nel 1905 fu Giovanni Gerbi detto il Diavolo Rosso il primo vincitore, a ricordarti che in questo infinito racconto ci sei anche tu.

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