E’ sempre lui. Riconoscibile e intimo Luca Carboni, che esce con il suo nuovo Pop-Up, undicesimo album di studio in trentun anni di carriera. Undici canzoni che compongono la tracklist che sono una più carboniana dell’altra, con il tema dell’amore come costante, al centro. Anche se i pezzi che negli anni scorsi l’hanno portato in cima alle classifiche parlavano d’altro. “La scelta di avere Michele Canova al mio fianco – spiega a ilfattoquotidiano.it – nasce più di due anni fa, prima di Fisico e Politico, l’album di duetti che aveva sempre lui alla produzione. Io cercavo proprio qualcuno che potesse tradurre in musica questa mia idea di fare canzoni usando le macchine, senza troppi strumentisti, un po’ come era successo nel 1992 e ancora prima con Forever, mio secondo album”.

Forever, album che cercava di coniugare cantautorato e pop-dance, è il lavoro che più richiama alla mente Pop-Up, anche a partire dalla scelta del titolo in inglese.
Questa volta ho scelto di nuovo un titolo in inglese per giocare sul termine pop, ma anche per far riferimento ai libri per bambini, dove ogni pagina nasconde una sorpresa fatta col cartoncino, o anche le nuvolette che caratterizzano la navigazione in rete. Forever era un album in cui provavo a sperimentare, mettendo nello stesso lavoro le mie passioni. Non è un caso che se mi si chiedesse di indicare i miei riferimenti musicali, faticando non poco, finirei per citare sia Dylan che i Duran Duran, senza dimenticare ovviamente Clash o Coldplay. Come nei testi, mi piace lavorare di contrasti, penso si senta.

Stavolta, invece, hai messo insieme canzoni molto diverse tra loro, i cui testi, però, sono tra loro legati.
Sì, stavolta parlo quasi sempre d’amore, non fermandomi ovviamente a quello tra due persone, e di conseguenza mi sono trovato a citare in tre brani anche l’odio, che dell’amore è la negazione. Se parlo di razzismo nei confronti degli stranieri, come faccio in Luca lo stesso, per dire, o di quello di chi ha fatto del proprio essere animalista un modo per scagliarsi contro il genere umano, parlo di forme d’amore, magari non centratissime, ma pur sempre amore. Uno ama talmente la sua patria da volerla tenere tutta per sé, come in certe forme d’amore malato.

Torniamo a Canova: avete iniziato lavorando a Fisico e Politico?
Abbiamo fatto quel primo brano, e quel che abbiamo fatto ci è piaciuto. Molto. Per cui abbiamo deciso di fare quel lavoro di duetti e di ripescaggio di miei vecchi brani, e di lavorare a canzoni nuove, per la prima volta senza ragionare direttamente su un album, ma un brano alla volta. Quando avevo una canzone che ci piaceva lavoravamo a quella, poi aspettavamo che ne arrivasse un’altra. Nel corso di alcuni mesi. Senza stress. Ciò nonostante, avendo un’idea precisa di cosa fare, musicalmente, cercando sonorità elettroniche, non si è persa l’omogeneità dei suoni. Non c’è infatti stato un grande lavoro di post-produzione, a parte quello sulle foto.

La tua particolarità, a differenza di Eros Ramazzotti – ad esempio – è che sin dal tuo primo album, nel 1984, hai in qualche modo ricollocato l’idea di cantautorato su altri temi. Eri un cantautore, riconosciuto come tale, ma eri anche pop, nel termine più letterale del termine.
Ho sempre cercato di coniugare le due cose. Ho anche sempre preteso molto dal mio pubblico, perché mi è piaciuta l’idea di cambiare, anche quando in passato ero più al centro dell’attenzione.

In Milano canti: “Spesso mi chiedo perché/ sto a raccontare i cazzi miei alla gente/ pensa a quelli come me/ che stanno svegli la notte/ cercando le frasi per riuscire a parlar di sé/ non sanno fare nient’altro/ non sanno fare niente/ neanche le lavatrici/ hanno i maglioni sgualciti”. Di te e della tua vita privata si sa molto poco…
Io scrivo di me, poi le canzoni ognuno le interpreta a partire da sé. È la forza delle canzoni, quella. Rende universale una faccenda privata, personale. Poi guarda, quella canzone, Milano, la seconda dell’album, in realtà nasce tutta da un’idea di Manuele Fusaroli, che è uno dei più bravi produttori della scena indie, al momento al lavoro con Andrea Mirò, e di Marco Vincenzi. Manuele, che è un mio caro amico, mi ha fatto sentire la canzone, che lui voleva addirittura gettare e a me è sembrata subito fatta apposta per me, io ci ho messo su poco, le idee erano già quasi tutte lì.

Questa è la prima volta che collabori a livello di scrittura e non sui duetti.
Ho deciso di cambiare, stavolta. E mi sono rivolto a autori validissimi, come lo stesso Fusaroli, e poi Dario Faini e Tommaso Paradiso dei The Giornalisti. Ancora, Alessandro Raina, grandissimo autore, e poi Matteo Buzzanca, e due miei musicisti, Christian Rigano e Antonello D’Urso. Volevo provare a sperimentare su questo fronte, e per dire, Bologna è una regola è la canzone su Bologna, uno dei miei temi ricorrenti, probabilmente più centrata in tutta la mia carriera, e nasce da un’idea di altri autori.

Se per la produzione ti sei rivolto al simbolo del mainstream, Canova, per gli autori hai osato di più.
Sì, mi piace guardarmi intorno. Del resto in precedenza, dopo aver lavorato con Mauro Malavasi, che probabilmente è il miglior produttore degli anni Novanta, ho lavorato anche con Riccardo Sinigallia, che non è indie, ma neanche proprio mainstream. Per questo dico che ho chiesto molto al mio pubblico, non mi piace percorre strade già percorse.

Non ti resta di farti produrre proprio da Manuele Fusaroli, dovessi tornare a usare tutti gli strumenti. Comunque, qualcuno ti ha chiesto, durante la conferenza stampa di lancio del disco, se Luca lo stesso, primo singolo che ha anticipato l’album, molto apprezzato da pubblico e radio, che ci fosse un sottotesto atto a dire: guardare che io sono ancora qui, magari con meno smalto, ma pur sempre quel Luca Carboni lì.
Ho pensato che qualcuno sarebbe potuto arrivare a questa conclusione, ma l’idea di partenza e lo sviluppo erano altri. Ho coscienza di aver passato un periodo in cui sono stato meno presente, circa un decennio, di aver anche venduto meno, ma non sono mai stato dell’idea di dover fare le cose per forza. Undici anni in trentuno anni significa uno ogni tre. Direi che sono uscito sempre quando avevo qualcosa da dire, senza farmi troppe storie.

Sembra che oggi tu riesca a raccontare i sentimenti in maniera più serena.
Se in passato mi vantavo di arrivare in vetta con brani che parlavano non d’amore, oggi penso che parlare d’amore sia ben più importante, e lo faccio praticamente in tutti i brani. La finale Invicibili, scritta grazie alle nuove tecnologie , stavolta ho mollato Pro-Tools per Garage band, molto più comodo, mentre ero al Porto dell’Isola d’Elba, è un po’ la summa di tutta la tematica di Pop-Up, e nonostante suoni più asciutta, forse anche più cruda delle altre, è la canzone che racchiude in sé tutte le altre. E lì la parola amore ricorre in ogni strofa.

Proprio in quel brano citi Stefano Benni, quando canti “Per noi spaventati eroi/ guerrieri comici/ ad ogni bacio noi/ così invincibili”.
È da quando ho letto Comici spaventati guerrieri, una vita fa, che aspettavo il testo giusto dove citarlo. Del resto ci sono tante altre citazioni, sparse qua e là. Da sempre mi piace giocare con le parole, come ho fatto in passato con Prevert, e stavolta con Hesse, Benni e con la poetessa Wislawa Szymborska, che ha ispirato il brano Chiedo scusa. Mi piace citare, e mi piace guardare alla poesia per farmi ispirare.

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