Metadada+ è un’app che recensisce, in tempo quasi reale, gli attacchi dei droni americani, dando conto, con tanto di mappa interattiva, dei luoghi degli attacchi e delle vittime. L’app utilizza esclusivamente dati e metadati pubblici e, dunque, non viola nessun tipo di segreto militare o di Stato.

Eppure, dopo aver faticato non poco ad essere ammessa nell’Apple store – il grande mercato online di casa Apple – e avervi riscosso uno straordinario successo, con oltre 33 mila download solo nei primi quindici giorni, domenica scorsa, il gigante di Cupertino l’ha messa alla porta, con una motivazione di una manciata di caratteri: “Excessively crude or objectnable content”.

La notizia l’ha data lo stesso sviluppatore dell’app, Josh Begley – un trentenne americano che ha al suo attivo diverse collaborazioni con alcune delle più blasonate testate d’oltreoceano via @dronestream, un suo account su Twitter attraverso il quale peraltro, è ancora possibile accedere a tutte le informazioni sugli attacchi dei droni statunitensi.

L’app, d’altra parte, resta almeno per il momento, disponibile sul Play Store, il mercato online delle app per Android gestito da Google. E pensare che Josh Begley aveva impiegato quasi due anni – dal 2012 al 2014 – per vedere l’’pp ammessa nell’Apple store ed era riuscito nell’impresa solo accettando di cambiare il nome originario “Drone+”, e di rinunciare a far rimbalzare sugli smartphone ed i tablet dei suoi utenti solo i dati dei droni americani.

In un’intervista a Wired, a ridosso del terzo rifiuto ricevuto dalla Apple alla richiesta di distribuire l’App attraverso il proprio Store, Begley nel 2012 spiegava che il suo unico obiettivo era quello di giocare sul concetto di “allert” via smartphone, nel tentativo di risvegliare le coscienze sull’impiego massiccio dei droni americani in territori lontani come il Pakistan, lo Yemen o la Somalia.

Domenica scorsa, la decisione di Apple di porre fine alla breve ma intensa esperienza dell’app – frattanto ribattezzata Metadata+ – sull’Apple store in assenza, ovviamente, di qualsivoglia ordine di qualsivoglia autorità, il che, presumibilmente, non significa anche in assenza di qualsivoglia richiesta o pressione da parte del governo Usa. Un’app dedicata pressoché esclusivamente a far rimbalzare nel mondo intero fatti – e non semplici opinioni o supposizioni – relativi ad un fenomeno di indubbio e straordinario interesse pubblico.

La storia è, probabilmente, eguale a centinaia di altre – più e meno note – e solleva, una volta di più, la questione del ruolo dei nuovi gatekeeper dell’informazione online, una questione che è urgente affrontare e risolvere fissando regole e principi che sottraggano una volta per tutte alle grandi piattaforme commerciali il diritto di censurare – perché di questo si tratta – un’app o un contenuto esclusivamente in ragione del carattere “scomodo” o “sensibile” ma non illecito delle informazioni che veicolano.

E che si tratti di questione di enorme rilevanza democratica – a prescindere dalla singola vicenda di Metadata+ – lo racconta in modo quasi plastico, la coincidenza della notizia dell’ultima censura disposta da casa Apple, proprio mentre il gigante di Cupertino annuncia di aver venduto, in soli tre giorni, oltre 13 milioni di pezzi del nuovi iPhone 6 plus.

E’ evidente che, ogni giorno di più, la formazione dell’opinione pubblica e della coscienza collettiva dei tre miliardi di cittadini del mondo connessi ad Internet è funzione dei contenuti e delle informazioni accessibili attraverso smartphone, tablet e Pc ma, soprattutto, attraverso le grandi piattaforme commerciali che consentono di popolare – o di non popolare – di contenuti tali dispositivi.

Se chi legittimamente sceglie di far di mestiere il produttore di dispositivi tecnologici o il gestore di megastore commerciali e chi altrettanto legittimamente arriva ad occupare innegabili posizioni dominanti nei relativi mercati resta libero di selezionare in assoluta autonomia se e quali contenuti rendere accessibili a miliardi di persone nel mondo, lo scenario che si prefigura all’orizzonte per la libertà di informazione e di conseguenza per la democrazia rischia di essere drammaticamente più fosco di quello che ha sin qui contraddistinto il mondo dei media tradizionali.

Eppure, a guardarsi attorno, sembrerebbe che i governi siano più preoccupati di trovare il modo di far pagare le tasse ai giganti del web o peggio ancora di chiamarli a rispondere dei contenuti veicolati che non di arginare lo strapotere che questi ultimi hanno ormai acquisito nel prescrivere la dieta mediatica globale.

C’è bisogno di una repentina inversione di rotta: non solo bisogna smetterla con la pretesa di chiamare Apple, Google, Twitter, Facebook e gli altri a rispondere dei contenuti prodotti dagli utenti che veicolano ma bisogna, al contrario, imporre loro di non rimuovere neppure un bit dal web e dalle loro piattaforme commerciali senza un ordine di un’Autorità, emesso all’esito di un giusto processo.

Altro che affidare a Google – addirittura per Sentenza – il diritto/dovere di riscrivere la storia decidendo le questioni di diritto all’oblio o chiamare Facebook o Twitter a rispondere di violazioni del diritto d’autore o di ogni genere di reato di opinione per i contenuti pubblicati dagli utenti, quel che serve davvero è l’esatto contrario: rafforzare il principio per il quale chi intermedia i contenuti altrui, anche se lo fa a scopo commerciale, non ne risponde ma, a un tempo, vietare assolutamente a chicchessia di decidere che un’app che racconta degli attacchi di droni di Stato in territorio straniero, meriti di essere oscurata per evitare grane o incidenti diplomatici con i potenti di turno che siano soggetti pubblici o privati.

Certo si fa prima a dire ad Apple, Google & soci di cancellare un contenuto, renderlo inaccessibile o farlo scomparire dal web, ma il prezzo che poi si finisce a pagare è quello di ritrovarsi con un web che minaccia di rassomigliare sempre di più ad una vecchia Tv.

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