Lo scandalo della Volkswagen non è solo la storia di una truffa. La vicenda appena scoperchiata è una truffa su larga scala che colpisce, anche dal punto di vista simbolico, il marchio per antonomasia dell’auto tedesca. Per la Germania è un duro colpo. La sua immagine nel mondo è compromessa. Il mito dell’efficienza, della perfezione tecnica, della cura teutonica per i particolari è precipitato in basso alla stessa velocità delle azioni della Volkswagen. I vertici della casa automobilistica hanno ammesso di aver manipolato i dati sulle emissioni diesel anche nel proprio paese. Manager e dirigenti potrebbero quindi entrare nel mirino della giustizia tedesca, oltre che di quella statunitense.

Per reati di truffa come questi, in Germania, sono previste pene che vanno dalle semplici sanzioni pecuniarie fino alla detenzione, anche dieci anni per i casi più gravi – ammesso però che, in una vicenda ramificata come questa, si possa risalire alle responsabilità individuali. Tecnicamente, di “truffa” si può parlare quando il produttore inganna i consumatori sulle caratteristiche che determinano il valore della merce venduta. I valori delle emissioni, a rigore, non rientrano tra queste caratteristiche. Ma se l’idoneità alla circolazione di un veicolo è messa a rischio o se comunque un cliente acquista un’automobile a un certo prezzo in cambio di alcuni requisiti che poi si rivelano fasulli, la truffa c’è, eccome.

Nel frattempo, si è fatta sentire la voce delle istituzioni per bocca della presidente della massima autorità per l’ambiente, Maria Krautzberger. “La truffa sulle emissioni non è soltanto un inganno per i clienti, ma ha anche conseguenze sull’inquinamento dell’aria”, ha detto la numero uno dell’Agenzia federale ad hoc. “E’ un danno per la salute dei cittadini. In Germania, nel 2014, il 62 per cento delle centraline nelle città è rimasto al di sopra del valore limite stabilito dall’Ue. Le dimensioni del problema sono più ampie di quanto non si creda. Qui non parliamo solo dei circa tre milioni di nuove automobili che ogni anno arrivano sul mercato. Anche per i 44 milioni di veicoli già in circolazione avremmo bisogno di una struttura indipendente con il compito di eseguire controlli e garantire che gli standard delle emissioni rimangano inalterati nel tempo. Gli Usa sono molto avanti in questo. Là le manipolazioni sono espressamente vietate e possono essere punite con multe molto salate. L’Europa deve fare altrettanto”.

Per la giustizia tedesca esiste comunque la punibilità dei reati contro la salute. Il fatto che la Volkswagen abbia messo coscientemente in circolazione veicoli con emissioni superiori ai valori consentiti ha contribuito a innalzare l’inquinamento da polveri sottili, anche se in prospettiva di una possibile inchiesta sarebbe complicato dimostrare fino a che punto valori più alti concorrono a ledere la salute delle singole persone. Infine, terzo argomento rilevante, la falsificazione di test tecnici. Qui non si scappa, si può arrivare anche alla detenzione fino a cinque anni. Anche nel caso in cui la manipolazione non fosse stata esplicitamente ordinata dall’alto, scatterebbe lo stesso la punibilità per responsabilità oggettiva. Per i manager del gruppo non sarà quindi possibile scaricare la colpa su chi sta più in giù nella gerarchia. Anche nel caso in cui i vertici di un’azienda siano sinceramente all’oscuro di comportamenti illegali, essi sono infatti considerati inadempienti rispetto agli obblighi di controllo e punibili con una sanzione di un milione di euro a testa. Nel caso della Volkswagen non si tratta di una singola infrazione, ma di un reato commesso ripetutamente. Potrebbe costare caro, molto caro.

Resta infine da chiedersi, quale intreccio tra vertici dell’azienda automobilistica e istituzioni politiche sia mai stato necessario per permettere l’aggiramento delle norme. Un tema, questo degli interessi incrociati di politica e lobby economiche, sempre attuale anche in Germania. Lo scorso anno è venuto alla luce un giro di scambi tra i produttori di auto e l’Adac, l’equivalente tedesco dell’Automobilclub, che si occupa tra l’altro dei controlli di qualità sulle automobili in nome dei consumatori. Il premio più ambìto dai produttori di auto è l’“Angelo giallo”, un marchio prestigioso – almeno fino a quel momento – in grado di influenzare il mercato delle quattro ruote in Germania. In cambio di elargizioni l’Adac conferiva ai modelli di questa o quell’altra casa automobilistica il bollino di miglior veicolo. Il premio dovrebbe essere assegnato sulla base dei voti di un folto campione di automobilisti, ma si è scoperto che per anni i numeri sono stati manipolati.

A essere coinvolto nello scandalo fu l’allora responsabile comunicazione dell’Adac, Michael Ramstetter, poi costretto alle dimissioni. Il suo diretto intervento favorì, tra l’altro, l’ingresso della “piccola” della Volkswagen, la Up, nei primi cinque posti della classifica. Posti che sono regolarmente appannaggio di Audi, Bmw e Mercedes, in deciso vantaggio su tutti gli altri. Poi è stata la volta dello stesso presidente dell’Adac, Peter Meyer, anche lui costretto a dimettersi per le pressioni dell’ambiente. Solo pochi giorni prima, aveva tentato di difendersi sostenendo che le accuse di manipolazione erano prive di fondamento.

Nel 2010, per citare un altro esempio, la Classe E della Mercedes si aggiudicò il titolo di auto più amata dai tedeschi, nonostante i numeri reali favorissero la A5 dell’Audi. Sull’onda dello scandalo le case automobilistiche che avevano ricevuto tra il 2009 e il 2013 il prestigioso premio hanno poi deciso di restituirlo. L’Adac, dal canto suo, ha circoscritto la vicenda a “persone singole” responsabili di aver ingannato le case produttrici e l’opinione pubblica. Con la promessa di controlli più severi. Insomma, lo scandalo Volkswagen non è un caso isolato. Da più parti, ormai, sulla stampa tedesca circola la convinzione che questo sia “solo l’inizio”.

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