Con i nuovi buoni pasto elettronici si può fare la spesa? Sono cumulabili? Si possono utilizzare solo dal lunedì al venerdì? Queste e molte altre domande da settimane tengono banco davanti alle macchinette del caffè al lavoro o alle casse dei supermercati dopo che, dallo scorso luglio, è entrato in vigore un emendamento alla legge di Stabilità che ha modificato la loro detassazione. Paura e dubbi comprensibili visto che oggi i buoni sono utilizzati da circa 2,5 milioni di dipendenti e liberi professionisti e spesi per il 70% nella grande distribuzione. Non a caso è stata anche lanciata una petizione su Change.org per la libertà dell’uso dei buoni pasto, arrivata a quasi 39mila adesioni.

Cominciamo, quindi, a fare chiarezza nella gran confusione che si è generata: sono sì cambiate le regole, ma solo per quel che concerne il valore esentasse del ticket elettronico, passato da 5,29 a 7 euro. Un ritocco all’insù di 1,71 euro che è servito a elevarne il valore, come ci chiedeva da tempo l’Europa, e a rendere il mercato sempre più digitale. Nessun cambiamento, quindi, né per i lavoratori che ogni mese continuano a ricevere il buono cartaceo, né per quanti possiedono un e-ticket: potranno continuare a utilizzarli al supermercato tutti i giorni per fare la spesa anche cumulandoli e a spenderli come hanno sempre fatto in bar, gastronomie o ristoranti.

Qual è il motivo per cui questa novità ha generato un vespaio di polemiche? “Perché da oltre 30 anni la prassi va sempre in un’altra direzione rispetto alla normativa”, spiega Emmanuele Massagli, presidente Anseb (l’associazione delle società che emettono i buoni pasto), secondo cui “i ticket sono da sempre utilizzati in maniera non corretta: tecnicamente, infatti, dovrebbero essere spesi al supermercato uno alla volta, nella pausa pranzo o comunque nei giorni lavorativi e solo per la spesa alimentare, proprio come riportato sul retro del buono. Il problema si è creato con la consuetudine di trattare il ticket come una sorta di moneta senza scadenza e difficilmente tracciabile”. Così, visto che la legge è intervenuta solo sull’esenzione, non facendo riferimento al divieto di cumulabilità, tutto resta come prima nonostante ora sia più facile controllare la spesa e tracciarla. “Ma – chiarisce ancora Massagli – non saremo certo noi a fare i poliziotti e controllare che la normativa venga rispettata. Inoltre, per motivi di privacy e riservatezza, gli emettitori non dispongono delle informazioni in grado di tracciare le abitudini di consumo degli utenti”.

Del resto, i gestori sono i primi ai quali conviene che tutto resti immutato visto il giro d’affari generato dai buoni pasto: 3 miliardi di euro all’anno di cui il 25%-30% da un paio di anni viaggia sui ticket elettronici. Mentre tutta la filiera, secondo uno studio dell’Università di Tor Vergata, rappresenta lo 0,72% del Pil italiano e 190mila posti di lavoro tra diretti e indiretti. “E ci aspettiamo che entro quattro anni la metà del mercato diventi elettronico”, dice Massagli. Chiari i vantaggi anche per le aziende che ne sostengono il costo: il buono è totalmente deducibile a differenza, ad esempio, delle spese di vitto e alloggio che si possono scaricare solo per il 75%.

Il problema per l’uso di questi ticket, piuttosto, è un altro. “Con la diffusione sempre più capillare degli e-ticket ai lavoratori – denuncia Marco Pierani, responsabile delle relazioni istituzionali per Altroconsumo – aumentano anche le segnalazioni di quanti non riescono più ad usarli presso bar e supermercati, perché non vengono accettati”. Numeri alla mano, secondo l’associazione la card è accettata da appena 35mila esercizi commerciali contro i 150mila che ammettono i buoni cartacei. Il fatto è che il buono elettronico, che è simile a un bancomat o a una carta di credito, per funzionare deve essere strisciato in un Pos che obbliga però gli esercenti ad avere quattro-sei lettori per supportare tutti i tipi di buoni, visto che ogni società emettitrice ha una propria tecnologia. Si tratta, quindi, di dotazioni che comportano elevati costi che non tutti gli esercenti, soprattutto i piccoli alimentari o i bar, sono disposti a sostenere, viste le commissioni elevate.

Conferma che arriva anche dalla grande distribuzione, secondo cui “il problema principale sono le gare al massimo ribasso di alcune società che per aggiudicarsi gli appalti con la Pubblica amministrazione penalizzando quelle più piccole. Il risultato è che, per recuperare redditività, aumentano le commissioni a carico degli esercenti: dal 6 al 15% contro il 3% pagato in Francia”. Il problema è già arrivato sul tavolo del governo con la richiesta di rivedere le commissioni. Ma, prima che vengano tagliate, potrebbe sbloccarsi l’accordo tra le società per l’uso di un unico Pos.

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