Chiusa la parentesi elettorale, torna sul tavolo la questione del debito ellenico. A differenza di quanto si potrebbe pensare, la Grecia dal 2010 non è fallita tecnicamente nemmeno una volta. Il susseguirsi dei tre piani di salvataggio è servito a ricapitalizzare le dissanguate finanze elleniche un momento prima che Atene potesse dichiarare la sua insolvenza. Queste operazioni finanziarie non hanno nulla di intrinsecamente messianico, tutt’altro: nessuna leadership politica europea sarebbe voluta finire sui libri di storia come responsabile del primo fallimento di un Paese appartenente all’eurozona, anche se questo avrebbe significato soprassedere sulla “No bailout clause” sancita dal trattato di Maastricht. Nella fattispecie nessuno degli Stati appartenenti alla Comunità europea poteva farsi carico e garantire il debito di un altro Paese appartenente alla comunità stessa.

Nonostante i bailout vengano propinati come strumenti necessari per l’uscita della Grecia dalla crisi, in realtà molti di questi denari sono serviti a “togliere le castagne dal fuoco” a banche private: francesi e tedesche in primis, ma anche italiane e greche, che erano pesantemente esposte sulle finanze elleniche. Il fallimento di Atene avrebbe significato grandi perdite per le banche private già messe sotto pressione dalla crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti nel 2008. L’unico taglio (haircut) del debito greco è datato 2012, quando buona parte dei titoli era già passata dalle banche agli Stati.

In sostanza alle banche di Parigi e Berlino, ma anche a quelle italiane, è stato permesso di disfarsi dei titoli greci su vasta scala. Questi titoli, conseguentemente, sono passati agli Stati sovrani, Italia compresa. I rischi intrinseci dei bond greci sono stati mutualizzati principalmente tra Germania, Francia e Italia. La No bailout clause è stata violata anche per permettere alle banche di ridurre la loro esposizione sul debito ellenico. Non solo. Berlino, Parigi e Roma si sono divisi la quota di titoli greci non in proporzione all’esposizione delle proprie banche private, ma in base a quote prestabilite. Così l’Italia, la cui finanza privata era esposta per pochi miliardi, si è dovuta accollare una cifra ben maggiore. Da un’esposizione bancaria di 7 miliardi di euro si è passati a una pubblica di 41. Queste operazioni sono state un pessimo affare per molti, i cittadini europei, e un ottimo affare per pochi, i grandi istituti di credito esposti sulle finanze greche.

Questo modus operandi è un caso unico nella storia della Grecia. Nel passato ad Atene è stato permesso più volte di dichiarare ufficialmente e letteralmente bancarotta: nel 1826, nel 1843, nel 1860, nel 1893 e nel 1932. A differenza di oggi, nel 1800 le grandi banche erano principalmente intermediarie di affari. Negoziavano il prestito per conto del governo che ne richiedeva la sottoscrizione. I titoli venivano venduti spesso a piccoli investitori, lasciando alla banca sono l’onere di intascare la commissione e vari bonus. Se lo Stato debitore fosse fallito, il danno sarebbe ricaduto sui piccoli investitori che potevano fare ben poco per costringere il Paese in bancarotta a restituire il denaro prestato onorando gli impegni presi. I governi di allora, soprattutto la Gran Bretagna che era la maggior potenza economica dell’epoca, difficilmente davano retta alle richieste degli incauti investitori, tranne nel caso in cui ci fosse un dichiarato interesse politico. Il creditore doveva assumersi la responsabilità dell’investimento che aveva fatto, sul quale era corrisposto un interesse per il rischio corso.

Oggi il fallimento di Atene sarebbe un grosso danno economico non più per le banche ma per quegli Stati europei che detengono circa 200 miliardi di euro del debito greco. Far fare bancarotta alla Grecia, con conseguente ristrutturazione del debito, vorrebbe dire rimettere sotto pressione i bilanci di molti Stati che, Francia ed Italia in testa, stanno cercando a fatica di tirarsi fuori dalle sabbie mobili della crisi.

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