Qualcuno dette ordine di trafugare quello che trovava    del rogo della chiesa e di consegnargli il bottino. Lo sciacallo di Sant’Anna di Stazzema ha un nome, un cognome e un titolo onorifico: era un’autorità locale. A rivelarlo nei suoi appunti è Leopolda Bartolucci, superstite della strage nazista nel paesino dell’alta Toscana del 12 agosto 1944. Leopolda è morta 6 anni fa, ma i suoi quaderni – scritti a partire dal 1990 – sono conservati donatella berretti mostra i quaderni della madre leopoldagelosamente dai figli: dentro si trovano ricordi, storie, scandali e anche qualche pettegolezzo del paese che non ha mai voluto lasciare, neppure dopo quell’alba d’inferno di 71 anni fa, quando suo padre Adolfo fu massacrato con altri 160 tra uomini, donne, bambini davanti al sagrato.

le foto dei bimbi raccolte dalla Polda nei suoi quaderniUna sorta di Spoon River, quella scritta dalla “Polda”, in una grafia armoniosa, d’altri tempi. Aveva la terza elementare: la scuola interrotta con la guerra e più ripresa, per l’imbarazzo di stare al banco coi bambini. Nonostante qualche errore ortografico, i suoi appunti restano la testimonianza “meno ufficiale” e più autentica che Sant’Anna abbia mai avuto.

“I quaderni? Meglio non pubblicarli, qualcuno si offenderebbe”
“Quello che scrivo è Vangelo” scrive Leopolda dopo aver raccontato di quello sciacallo che non si fece scrupoli. I vedovi delle donne uccise nel mucchio, invece, per pudore di far torto ai morti e sfilare l’anello alla mano sbagliata, irriconoscibili com’erano i corpi bruciati, rinunciarono a recuperare le fedi delle consorti, anonime, perché quelle vere, coi nomi incisi, se n’erano andate dieci anni prima come “oro alla Patria“. Mentre sfoglia i quaderni nella bella casa sulla via crucis, il percorso in salita che dalla piazza della Chiesa porta all’Ossario in cima al Col di Cava, la figlia Donatella Berretti, 53 anni, spiega: “La mamma – dice – ha raccolto alcune testimonianze che ne smentiscono altre più famose, passate alla storia. A volte dice cose personali o parla male di qualcuno, sono pensieri suoi, io e i miei fratelli non vogliamo offendere nessuno. Perciò questi appunti non possono essere pubblicati interamente”.

Le foto dei bambini di Sant’Anna
Le testimonianze dei superstiti non sono l’unica cosa raccolta negli anni dalla Polda. Ci sono anche gli album di fotografie, volumi pieni di immagini in bianco e nero dei bimbi che, da un giorno all’altro, non c’erano più. Nome, età, provenienza, gradi di parentela gli uni con gli altri: la Polda, nessun altro, le raccolse e catalogò una a una, in un lavoro ossessivo fatto per ridare dignità – almeno – alle vittime sotto i 16 anni. Il pannello oggi è conservato nel museo di Sant’anna e una copia resta dietro l’altare della chiesa. Sfogliando ancora i suoi album dedicati ai santannini e agli sfollati che ne condivisero la sorte, spuntano scatti in posa: di nozze e, dopo il 1944, di funerali e commemorazioni. Foto di classe, di prima comunione, foto ricordo tagliate a forma di cuore, da tenere con sé nel portafoglio: come quella di un fidanzato, messa sotto teca al Museo Storico della Resistenza.

SAM_6540Insieme, sotto vetro, altri oggetti, testimoni di quegli istanti: una bambola, un cappello, un orologio fermo alle 6 e 52, un vestito. Ognuno è stato raccolto e conservato da Polda, fino a che non è nato il museo, nella vecchia scuola del paese, nel 1982. Ognuno avrebbe una storia da raccontare. Dell’orologio non si sa nulla. Ma la bambola, il vestito e il cappello bruciato ancora oggi parlano.

La bambola di Maria Franca, il vestito di Lina
Ha la bocca aperta, lo sguardo sbarrato, terrorizzato, una brutta crepa nel cranio e un buco sopra il labbro. Il bavaglino per proteggersi dalle macchie di pappa è adesso sporco di sangue. Sembra ruggine. E’ una bambola, trovata col cadavere della sua padroncina, Maria Franca Gamba, 2 anni, sulla via per il borgo di Coletti. Adesso è stesa sotto una teca nel Museo della Resistenza, il capo adagiato su un cuscino bianco. Accanto a lei, riposto con cura come avrebbe fatto la proprietaria, c’è un vestito azzurro. Tessuto millerighe, il bordo in pizzo bianco, è l’abito delle feste che Albertina Mancini, detta Lina, 19 anni, volle mettere al sicuro, nel caso i tedeschi le bruciassero la casa. Lasciò la madre, con cui si stava salvando, e tornò indietro per prenderlo, insieme alla cintola gialla, alla borsetta e alla foto del fidanzato partito per la guerra. “Trovò i tedeschi, la misero in fila con gli altri e morì al Colle” racconta Donatella, figlia di Polda, che lo raccolse.

La storia del cappello bruciato
Il cappello bruciato sulla cima era del papà di Polda. Un uomo buono, Adolfo Bartolucci, 57 anni quell’estate del ’44. Gli mancavano le dita dei piedi, per questo non lavorava in miniera come gli altri del paese, ma a casa, nella piazza della chiesa. “Toglieva i denti”, senza anestesia s’intende, e aggiustava gli ombrelli. Quella mattina si sentì sicuro nel rimanere a casa. Era vecchio, menomato, non l’avrebbero mai rastrellato, disse alla moglie Vittoria, 14 anni più giovane, per rassicurarla, prima che lei si allontanasse a piedi, diretta a Pietrasanta dalla sorella. I segnali sparati poco prima dai nazisti l’avevano convinta a riportare Annamaria, la nipotina di 6 anni, alla sorella, che gliela aveva affidata perché stesse lontana dai rumori delle bombe lanciate sulla Marina, che la spaventavano. “Quella mattina la bimba era più terrorizzata del solito e mia nonna, per paura che si spaventasse troppo, decise di riportarla a Pietrasanta” racconta Donatella, figlia di Leopolda, che quel giorno, a 11 anni, seguì la madre e la cuginetta giù per la mulattiera. Si salvò così, Polda. Dieci minuti ancora e sarebbe stato tardi.

Al ritorno da Pietrasanta, giunte a metà strada per Sant’Anna, a Valdicastello, Polda e la madre furono fermate da un’amica. “Non andare su, Vittoria. Sono morti tutti, è tutto bruciato”. Ma Vittoria non voleva saperne, aveva marito, fratelli e genitori a Sant’Anna. “Almeno lascia giù la bambina”. La donna tornò a Pietrasanta dalla sorella, le lasciò Polda e salì da sola. “Per altri tre mesi, fino a ottobre, mia nonna non fece tornare su mia madre. Avevano avuto da fare a sotterrare le persone, e gli animali morti erano sempre tutti in giro, perciò c’era cattivo odore da tutte le parti” racconta Donatella. Polda non rivide più il padre, da quella mattina. Di lui non rimase neanche un brandello, ma solo la scarpa ortopedica e il cappello, bruciato. Della casa, affacciata sul prato del massacro, scampò una pentola di rame, quella del becchime del pollaio. Il resto era venuto giù.

Non ha avuto una tomba su cui piangere il babbo, Polda. Ammucchiate, nere, senza identità, le persone uccise alla chiesa furono sepolte tutte insieme in una fossa comune, all’ombra del platano sotto il quale avevano chiesto un’ultima volta pietà e dal quale a lungo sono tornate su sotto forma di fuochi fatui. Quando, dopo tre anni, l’Ossario fu pronto, vennero riesumate e portate insieme in alcune casse su fino al Col di Cava. Dopo tre anni, la terra davanti alla chiesa buttava ancora fuori il grasso. E Polda lo setacciava, per dividerlo dal resto e seppellirlo nuovamente da una parte.

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Letteratura, storie dal tempio che ha perso la sua anima

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