Javier-CercasVerità è un termine cardine dei nostri tempi. Alcuni ne hanno fatto una professione, una politica, un credo. In questa pagina cercherò di fare un itinerario all’interno di un concetto: la verità. Lo farò aiutandomi con un libro uscito da poco in libreria: L’impostore di Javier Cercas. Sarà un articolo in forma di appunti.

“Io non volevo scrivere questo libro”. Ricordatevi questa frase.

Heidegger spiega come la parola greca per indicare la verità, alétheia, fosse composta dalla negazione a- e il sostantivo létheia. Significava quindi “non nascondimento”, ovvero rivelare qualcosa che è oscuro. Non quindi una semplice fedeltà ai fatti, ma una operazione dinamica di sottrazione di ostacoli in un cammino verso una meta irraggiungibile.

Tutti mirano a scoprire la verità, o almeno siamo tenuti a mostrare agli altri il nostro interesse per la verità, perché è un valore condiviso della nostra società.

Quante delle nostre certezze siamo disposti a rischiare per conoscere la verità?

“Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspetti”. Scriveva Eraclito.

Ci mostriamo proiettati verso la ricerca della verità, ma è una finzione. Noi, tutti noi, amiamo le menzogne.

Le menzogne sono più pacificatorie, sono più rassicuranti.

Le menzogne creano un mondo più simile a quello che vorremmo che esistesse.

Al Festival della letteratura di Mantova lo scrittore spagnolo Javier Cercas ha presentato il suo nuovo libro L’impostore edito da Guanda. A dialogare con lui Marco Belpoliti, saggista e intellettuale. Ricercatore, in qualche modo, di verità.

Mantova è sempre bella durante il festival, perché mostra come i lettori, solitamente chiusi ognuno nella sua stanza, si sentono parte di una comunità che li collega tra loro attraverso le pagine. Anche se non si vedono. Anche senza social network.

Mentre in strada un caldo cambogiano affanna il respiro di questo strano settembre, al teatro Ariston ci si siede al fresco per ascoltare Javier Cercas.

Parla del personaggio del suo libro Enric Marco. Un personaggio che non è un personaggio. È una persone reale.

Nei libri, solitamente, l’autore crea una storia inventata per il suo personaggio.

In questo caso il personaggio ha creato una storia inventata e l’ha fatta credere al suo autore. E anche a tutto il mondo.

Marco è un uomo come tanti, ma ha fatto credere a tutti di essere un eroe. Un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, un uomo coraggioso, un valoroso militante anarchico che si è battuto contro il franchismo. Per queste sue menzogne Enric Marco ha fatto carriera, è diventato una persona molto conosciuta in Spagna, segretario di un grande sindacato, rappresentante di tutti i sopravvissuti allo sterminio dei campi di concentramento.

Un sogno di redenzione in cui molto credevano.

Racconta agli studenti, in televisione, nei comizi, delle angherie dei campi di sterminio che ha vissuto, delle atrocità del franchismo contro cui si è battuto.

C’è solo un problema nella bella storia di Marco. Non era vero niente.

Certo i campi di sterminio erano luoghi terribili, ma Marco non è mai stato internato. Si è inventato tutto.

L’Enric Marco eroe non è mai esistito. Enric Marco è stato solo un uomo qualunque. Una persona grigia che nella sua vita ha detto sempre “sì”, per passare meno problemi. Si era piegato a tutto, pur di salvare la pelle e fare una vita tranquilla.

Poi il sogno.

Il sogno di non essere quel misero uomo che era. Il sogno di essere una persona importante. Una persona che aveva saputo dire “no” a testa alta. Il sogno di essere un eroe.

Allora Enric Marco si è inventato la persona che sarebbe voluta essere. Si è inventato una storia di coraggio e avventura, di resistenza e orgoglio. Una storia talmente bella, talmente incoraggiante, che tutti gli credono senza fare domande. Se ne convince sua moglie, se ne convincono gli amici, se ne convincono i dirigenti politici, se ne convince il popolo. Gli credono per un motivo semplice: perché è bello potergli credere. È rassicurante. Aiuta a sperare.

Il popolo lo ama. Lo adora. È l’eroe di cui avevano bisogno. Era l’eroe che loro avevano contribuito a creare.

“Felice il paese che non ha bisogno di eroi” scriveva Bertolt Brecht in Vita di Galileo.

Nel 2005 la grande menzogna viene smascherata e il sogno finisce bruscamente. Uno storico trova le prove: Marco non è un eroe, non lo è mai stato. È solo un impostore.

Rimane però una domanda: “perché?”

«Perché ha inventato questa menzogna? Perché tutti ci abbiamo creduto? Perché questa menzogna mi affascina così tanto?» Si chiede Javier Cercas.

“Io non volevo scrivere questo libro”. È la prima frase di questo romanzo. Cercas l’ha scelta per sottolineare che per lui, la ricerca di una verità su Marco, obbliga alla ricerca di una verità più profonda, quella su noi stessi. La verità non è una cosa facile da accettare, se riguarda noi.

Le menzogne ci aiutano a vivere. Noi stessi le creiamo, o crediamo in esse, senza farci domande. Ognuno di noi vuole dimostrare di essere migliore di quello che è. Vuole far vedere che è di più di quello che sa di essere.

Anche io in questo momento sto scrivendo questo articolo solo per convincere me stesso, e quindi voi, di essere un giornalista. Di essere una persona che ha l’autorità per parlare di libri, mentre è una menzogna.

Siamo tutti degli impostori.

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