facebook_675Compare ieri sul Corriere il risultato di uno studio commissionato da Tim su bambini e social network.

La fotografia: 1 su 5 mente sulla propria età, otto su dieci (tra i 9 e i 17 anni) navigano in rete sul telefonino, sette su dieci (tra i 9 e i 12 anni) hanno un profilo su uno dei social.

Comune denominatore: vigilanza dei genitori non pervenuta.

Prima di cominciare a scrivere ho tirato fuori la mia foto di classe in quarta elementare. Un ciuffo crespo e improponibile e un taglio ‘da maschietto’ odiato da me e voluto da mia madre “per praticità”. Ero una bambina tranquilla, non particolarmente vivace, indipendente ma ubbidiente. Tornavo a casa da sola a piedi e mia madre non stava in pena per quei dieci minuti di tragitto.

Dopo aver comprato un telefono nuovo di zecca ai figli novenni, le citazioni ad effetto degli smartphones boys tuonano tutte uguali: “oggi siamo meno sicuri”; “il mondo è cambiato in peggio”; “così so sempre dove si trova mio figlio”.

Frasi fatte che spesso giustificano la mancanza di volontà di opporsi al volere dei figli e seguire invece un minimo di buon senso (nove anni…seriamente?)

Quasi tutti vogliono che il proprio figlio non si senta diverso dagli altri.

E se anche lo fosse?

I diversi diventano poi musicisti, scrittori, artisti; il resto – quelli che aspirano ad essere uguali agli altri – finisce in ufficio.

Nella ricerca viene evidenziato che il ‘parental control‘ non viene praticamente quasi mai usato.

Ovvio, i genitori che dovrebbero farlo stanno probabilmente postando la foto dell’aperitivo con ciotola di noccioline e calice di bianco o la scosciata con unghia smaltata in riva al mare.

Come possono i genitori aiutare i figli se sono loro i primi ad abusare degli smartphone?

Nel culto di sé ad uso e consumo della comunità di amici fasulli sui social (ma quanto ha stufato questo vocabolo?), i genitori preferiscono ignorare il pericolo concreto di cyberstronzi e haters. Troppo presi a rintracciare sul Treccani online la parolina colta, trascrivere sul profilo una poesia minore che fa più figo, usare il filtro giusto per togliersi dieci anni.

Dicono che oggi la gente sia più cattiva. Ma è fuffa, l’umanità non cambia in quindici anni. Di diverso c’è che ora non si riflette per poi tacere, si pensa (forse) per poi vomitare parole.

Naturalmente i giornali e i media hanno molte colpe, e più di tutte quella di dare credito e voce ai cretini (o popolo del web che dir si voglia), legittimandoli a spararla sempre più grossa.

Anch’io molte volte ho la tentazione di incendiarmi, sbuffare, protestare. Ci sono momenti in cui vorrei urlare al mondo la mia indignazione. Ma poi aspetto, e NON scrivo. Tanto meno su bacheche pubbliche. Perché sicuramente c’è chi non capirebbe il mio sfogo, chi fraintenderebbe le mie parole (nella mistura di input simultanei spesso non si legge con la dovuta calma), chi butterebbe benzina sul fuoco. Allora chiamo mia sorella, un amico, aspetto mio marito, mi confronto con persone reali. Facendo così, spreco meno tempo e l’energia negativa figlia dell’incazzatura momentanea si disperde durante una discussione vera, e non imputridisce per giorni in un battibecco tra trolls e pseudo intellettuali.

Secondo Marcella Logli, direttore Corporate Shared Value di Telecom Italia, è comunque positiva l’adozione degli smartphone da parte dei ragazzi perché “aumenta il tasso di digitalizzazione”.

Parole furbette per un bonus finto.

Anche perché…da quando digitalizzazione vuol dire istruzione? O educazione? O informazione?

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