Nella questione dei profughi e/o migranti, i media hanno contato eccome. Dapprima al peggio. Scarse le inchieste dai luoghi in guerra, prevalente il racconto del derby fra crudeltà e buon cuore. Di fatto contribuendo alla fabbrica della paura, che come è noto non si cura con le esortazioni, ma con le analisi. La svolta è avvenuta con gli sbarchi in Grecia e l’apertura della via balcanica all’Europa perché da quel momento anche il più cieco dei ciechi ha cominciato a “vedere” il carattere geopolitico della questione e l’impossibilità di sfuggirvi a chiacchiere. E qui ha pesato anche la diversa “televisività” assunta dagli eventi.

Conta, ad esempio, che i profughi via terra siano oggettivamente meglio disposti all’inquadratura e al microfono, non siano inzuppati e stravolti, ma abbiano il loro zainetto tale e quale al nostro, le stesse magliette, lo stesso passo delle nostre passeggiate in montagna. Insomma, sono raccontabili come un reality, un Pechino Express durissimo, ma comunque un reality dentro il quale possiamo calarci. La camera li può seguire, può carpirne le espressioni e le parole (molti conoscono altre lingue oltre la loro) e così li trasferisce dal campo delle “caotiche catastrofi” a quello del “comunicabile” e dunque del gestibile. Aggiungi che quell’incolonnato calcare di passi sulla terra li fa apparire come “gente che se la sa sbrigare”. E nessuno viene aiutato più volentieri di chi già se la sta cavando. Altro che le migliaia rinserrati, lontano dagli occhi lontano dal cuore, nelle stive dei barconi in fondo al mare, in compagnia dei cattivissimi scafisti senza i quali vuoi mettere come si arresterebbe l’esagerato afflusso di quelli che la scampano.

Sta di fatto che basta salire su un mezzo pubblico per cogliere l’aria diversa dell’opinione pubblica e per capire che a Salvini è come se gli avessero sfilato di sotto la sedia. Tant’è che ora, sentito con le nostre orecchie, rinfaccia alla Merkel di volersi accaparrare i “profughi più qualificati”. E così anche i più testardi possono cominciare a sospettare che quella che pareva una minaccia è invece una colossale risorsa.

E ora, per mantenere l’incanto, un fraterno consiglio puramente televisivo all’ideale responsabile-immagine dei profughi/migranti: eviti gli inviti (e ne arriveranno tanti) nei talk show finché tutti gli invitati non padroneggino perfettamente le lingue del luogo di accoglienza. Guai a resuscitare, con sonorità ancora non amalgamate e con incertezze nella coniugazione dei verbi, quel senso di diversità che farebbe resuscitare la figura dell’estraneo che è sempre vissuto, e qui c’è poco da fare e da dire, come un potenziale nemico. Perché nei media, come si sa, è la forma che convalida il contenuto.

Articolo Precedente

Netflix, la risposta di Mediaset ai video on demand parte dalla fiction low cost

next
Articolo Successivo

Talk show, Del Debbio imita lo stile di Letterman. E Floris promette più inchieste

next