Il crollo del prezzo del greggio, che nei giorni scorsi è scivolato per la prima volta dal 2009 sotto i 45 dollari al barile, rivoluziona anche le rotte delle navi petroliere. Che alla usuale scorciatoia del canale di Suez, per arrivare dal Pacifico all’Europa preferiscono ora la via (molto) più lunga che prevede la circumnavigazione del continente africano. Questa scelta, resa possibile dal basso costo del carburante, permette alle compagnie di trasporto marittimo di vendere al miglior offerente che trovano lungo il tragitto. Per esempio, spiega l’agenzia Bloomberg che riporta la notizia, i Paesi dell’Africa occidentale nei quali la domanda è in continua crescita. Non solo: prolungare il viaggio passando sotto il capo di Buona speranza è anche un modo per tenere alte le tariffe pagate dai produttori alle navi cisterna. Più a lungo le flotte restano impegnate, infatti, più l’offerta di cargo cala e le quotazioni aumentano. Già oggi, stando a un sondaggio tra specialisti del settore, l’affitto costa in media oltre 28mila dollari al giorno, il valore più alto dal 2010 e il 19% in più rispetto alle previsioni di fine 2014.

I dati raccolti da Bloomberg evidenziano che tra agosto e settembre cinque navi petroliere cariche di diesel e carburante per gli aerei hanno deciso di seguire la rotta intorno all’Africa, che allunga la navigazione di 6.400 chilometri. D’altronde la rapidità non paga più. Il crollo del barile di Brent (giù del 50% nell’ultimo anno) e la sovraproduzione dei Paesi Opec, che puntano a mettere fuori mercato i gruppi statunitensi del greggio non convenzionale, hanno determinato una situazione in cui i prezzi futuri, i cosiddetti future, sono più alti di quelli attuali. Di conseguenza conviene tenere il carico in viaggio per molto tempo, nella speranza di un rialzo delle quotazioni.

Secondo gli analisti sentiti dall’agenzia Usa, la tendenza è destinata a rafforzarsi se i prezzi del petrolio continueranno a scivolare. Cosa che gli analisti ritengono probabile alla luce della fine dell’isolamento commerciale dell’Iran, che ha fatto sapere di essere pronto ad aumentare la produzione di 500mila barili al giorno subito dopo che le sanzioni saranno eliminate e di 1 milione di barili nel giro di cinque mesi. Sul lato dell’offerta pesano anche la prossima entrata in attività in Medio Oriente e India di nuove raffinerie che produrranno per l’esportazione. Sul fronte della domanda, poi, il rallentamento della Cina anticipa un probabile calo.

L’andamento delle quotazioni, però, ultimamente è tutt’altro che univoco: per esempio dal 29 al 31 agosto il barile ha fatto segnare un +25%. Poi, mercoledì, si è registrato un nuovo tracollo del 7%. D’altronde la produzione americana nei primi sei mesi dell’anno ha frenato bruscamente e la Russia, la cui economia è entrata in recessione anche a causa del calo del valore di quella che è la sua principale fonte di valuta estera, ha annunciato che se i prezzi nel lungo periodo rimarranno bassi potrebbe ridurre le estrazioni di oro nero per sostenere le quotazioni. L’Opec, poi, a fine agosto ha aperto per la prima volta a una trattativa con gli altri produttori globali con l’obiettivo di arrivare a “prezzi equi”. Prezzi che secondo il ministro del petrolio iraniano Bijan Zanganeh sono “nella forchetta 70-80 dollari”, ben sopra il livello attuale.

 

 

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