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La festa è finita. La Capitale e i suoi “re” rimasti senza terra. Schiacciato tra un sindaco marziano e un super prefetto a mezzo stampa, il partito degli affari della Capitale si salva solo perché non c’è più. Non è un paradosso. Non ci sono più gli affari. Per il Giubileo che si apre l’8 dicembre il Campidoglio spenderà, se ve bene, 100 milioni. Per quello del 2000 l’allora sindaco Francesco Rutelli promise la Metro C.

È vero che poi ci vollero dieci anni solo per fare l’appalto, però era lo stesso un’epoca di grandi speranze per impostori di ogni calibro. Adesso l’elenco delle grandi opere per il Giubileo farebbe tristezza a un ladro d’auto: pulizia delle strade vicino alle chiese, nuovi vespasiani, orari severi per lo scarico delle merci vicino a San Pietro. L’unico affare vero in vista non c’entra con il Giubileo, è un nuovo ponte sul Tevere per collegare l’Eur alla Magliana: 25 milioni, robetta per gente abituata a spartirsi gli appalti della Metro C a centinaia di milioni alla volta.

Non ci sono più i politici con cui intrecciare dialoghi fattivi, i mediatori, i facilitatori, i corrotti. Un po’ li hanno arrestati, e quelli rimasti a piede libero, anche se onesti, sono immobilizzati dal terrore delle inchieste, temono di veder spuntare il loro nome in qualche interrogatorio dei Buzzi o degli Odevaine. I più scafati, quelli che saprebbero vincere la paura, hanno perso la loro credibilità presso gli amici imprenditori nei due anni in cui Ignazio Marino ha chiuso tutti i rubinetti degli affari.

Non ci sono più, dunque, i cavalieri delle tavole rotonde, quelli che si vantavano di creare ricchezza e posti di lavoro mentre saccheggiavano le casse comunali, lasciandole a oggi con 10 miliardi di debiti.

Francesco Gaetano Caltagirone, detto Franco, costruttore e immobiliarista super liquido nonché editore dello storico giornale di Roma, Il Messaggero, fa sapere di non averne più voglia. È riuscito ad andare d’accordo con Rutelli e con Walter Veltroni (che ha regalato a lui e ai suoi colleghi un piano regolatore da sogno), ha scommesso su Gianni Alemanno, ha cercato con un certo successo di ammaliare Marino. Adesso si fida solo di Matteo Renzi e benedice e supporta come può il commissariamento strisciante affidato al prefetto Franco Gabrielli. Neppure lui, considerato il vero re di Roma, sa più come tirare i fili di una politica cittadina sfarinata.

Caltagirone, 72 anni, è solido e lavora molto all’estero, come i suoi blasonati colleghi Pietro Salini e Paolo Astaldi. Ma gli altri, quei costruttori che hanno alacremente collaborato al sacco delle periferie romane sono tutti in crisi nera, le case che hanno costruito non si vendono e li stanno strozzando. Sono in mano alle banche, preoccupatissime. Luca Parnasi, con la sua Parsitalia, è tenuto in vita da Unicredit che gli conta come buona la futura costruzione del nuovo stadio della Roma, benedetta da Marino ma tenuta ferma dal presidente della Regione Nicola Zingaretti. Il gruppo Lamaro della famiglia Toti sta gestendo una lenta e prudente ritirata dal mercato degli immobili. Tutti gli altri boccheggiano e per la prima volta dopo decenni sembrano aver perso ogni interesse su chi comanda al Campidoglio. Tanto, che cosa cambia? Marino è una sciagura, ma se si va a votare magari vincono i Cinque Stelle, e non è cosa per il partito degli affari.

Caltagirone è rimasto solo, un re senza terra. In pochi anni le grandi imprese che facevano di Roma una Capitale anche economica – e che lasciavano cadere le preziose briciole su cui hanno prosperato generazioni di specialisti del capitalismo di piccole relazioni – sono scomparse. L’Ina-Assitalia è stata ingoiata dalle Generali di Trieste, la Banca nazionale del Lavoro è diventata francese, e quest’estate l’ha lasciata l’ultimo manager italiano, l’amministratore delegato Fabio Gallia, passato all’incarico pubblico della Cassa Depositi e Prestiti. La Banca di Roma è scomparsa dentro il colosso Unicredit, portandogli in dote solo i crediti inesigibili dati allegramente alle imprese romane amiche. L’Alitalia è ridotta ai minimi termini e in mani straniere. Tutte briciole perdute per sempre.

Anche per questo l’effetto Marino ha fatto più male. Più o meno consapevolmente il sindaco marziano ha tolto l’ossigeno al partito degli affari quando il Campidoglio era rimasto l’unica vacca da mungere. E adesso c’è un sacco di gente terrorizzata dalla prospettiva di doversi trovare un lavoro onesto.

Twitter @giorgiomeletti

il Fatto Quotidiano 28 agosto 2015

I nuovi Re di Roma

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