Una settimana senza social network: provare per credere. È come passare da una metropolitana affollata in cui sei invaso dal vociare indistinto delle persone a uno chalet nel bosco. Niente gastrofoto dell’ultima pizza creativa o del soufflé fallito, niente immagini di tramonti sul mare, esibizionismi da battigia in varie salse (dal bikini fluo al polipo da record appena pescato).

Ma soprattutto niente pubblicità invadenti di borse all’ultima moda o dentifrici sbiancanti, niente finti inviti (in realtà sono imposizioni) a gruppi di cui naturalmente non t’interessa nulla. O chiamate alle armi per eventi che si tengono a centinaia di chilometri da dove sei tu. Che poi devi dire “no grazie” e allora la gente ti dice “ma perché no” e ti senti in dovere di spiegare che insomma non puoi. E comunque “che peccato”.

Niente messaggi di sconosciuti che ti chiedono di recensire il loro capolavoro non più nel cassetto, di ascoltare il loro fantastico ep, di pubblicizzare il loro importante “docu” di denuncia. Puoi evitarti sfoghi di mitomani che si lamentano di tutte le ingiustizie del mondo, dal capotreno ineducato al capoufficio severo. Ci si può concedere una tregua perfino dai commentatori compulsivi, improvvisati giuristi che analizzano le riforme costituzionali, politologi da bar sport, ego strabordanti, insultatori di professione che hanno un’opinione su tutto. Perfino sul tuo cognome. Al ridicolo non c’è fine: c’è gente che vuol far sapere quando ha le mestruazioni o la diarrea. Per non dire delle campagne virali, tipo quella promossa dalle ingegnere (#IlookLikeAnEngineer, per dimostrare che si può essere insieme belle donne e ingegneri), o l’imperdibile sequel delle chirurghe, #Ilooklikeasurgeon.

Sette giorni in cui ti fai i fatti tuoi e non quelli degli altri (o quelli che gli altri ritengono assolutamente degni di nota e naturalmente non lo sono quasi mai): una cura detox, una settimana Chenot (a gratis). All’inizio tutto questo silenzio può dare il classico effetto paradosso: l’alienazione. Ma i benefici sono indiscutibili, e non solo per la purificazione dalle banalità. Intanto: i social sono un lavoro, dunque è sacrosanto prendersi le ferie pure da quelli. E poi in vacanza bisogna fare quel che di solito non si fa. Visto che la capacità di attenzione è limitata, ci si concentra su altro. Tipo chiacchierate reali e non monologhi senza contraddittorio. Sui libri e non sui tuìt con i titoli dei libri. Sul nostro cane e non su cuccioli postati su Facebook. Tutte le cose belle finiscono: dunque passata una settimana si può tornare al proprio account con più moderazione e meno narcisismi. Magari anche con un po’ del mai sufficiente “senso dei limiti”.

Il Fatto Quotidiano del 24 agosto 2015

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