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E’ finita come doveva finire: ha vinto l’economia sulla politica. La storia della Grecia degli ultimi otto mesi è stata cancellata, ciò che i creditori istituzionali (Commissione, Bce, Fondo monetario) e la Germania volevano dal gennaio, quando cioè si è capito che alle elezioni politiche avrebbe vinto la sinistra anti-austerità di Syriza. La Troika e Berlino hanno ricreato lo stesso scenario pre-voto: una coalizione di larghe intese che sostenga il memorandum, oggi il terzo, quello per il nuovo salvataggio da 86 miliardi. Una coalizione che sarà inevitabilmente confermata dalle elezioni anticipate convocate ieri dal governo uscente di Syriza.

Alexis Tsipras si è dimesso da premier, prendendo atto che la sua coalizione (Syriza-Greci indipendenti) non aveva più numeri e senso politico: uno che ha vinto promettendo “mai più memorandum” e l’addio alla Troika non poteva continuare a governare come se niente fosse dopo aver riportato ad Atene la Troika (che se ne stava andando) e fatto votare al Parlamento un nuovo memorandum, ancora rigore in cambio di aiuti. Il suo programma, ora, si ridimensiona a “meglio che il memorandum lo applichi io piuttosto che la destra di Nuova Democrazia”.

“Rapide elezioni in Grecia possono essere il modo per allargare il supporto per il programma dell’Esm (il fondo salva stati europeo) appena firmato dal premier Tsipras a nome della Grecia”, ha twittato subito Martin Selmayr, capo di gabinetto del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker. Un’istituzione in teoria tecnica applaude la crisi politica in un governo con cui finora ha negoziato, convinto che la sua fine renda l’applicazione di quell’accordo più semplice.

Solo in Europa può sembrare normale.

Tsipras si è dimostrato un politico velleitario e inaffidabile come tutti gli altri che lo hanno preceduto. Anche se le sue intenzioni erano lodevoli (alleviare la sofferenza sociale dell’austerità, a qualunque prezzo), ha vinto le elezioni senza alcuna possibilità di attuare il suo “programma di Salonicco”, incompatibile con le condizioni finanziarie della Grecia e con i rapporti di forza con Bruxelles. Forse convinto dal suo ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, Tsipras ha impostato il suo rapporto con l’Europa come un ricatto: “Scommettiamo che se finisce male voi vi fate più male di noi?” Su questa base pensava di poter ottenere l’impossibile. Non ha funzionato.

Syriza, almeno nella sua parte di governo, si è gradualmente arresa al pragmatismo. Il referendum di luglio contro l’accordo con i creditori negoziato a Bruxelles è stata una fiammata di ribellione che ha bruciato soltanto Tsipras. Le condizione dell’accordo votato dal Parlamento greco pochi giorni fa sono più dure di quelle bocciate dal popolo dell’ “Oxi”, il “No” che non è servito. Forse ha ragione il nostro Alberto Bagnai nel sostenere che per la Grecia non c’è ribellione possibile nell’euro, la scelta – purtroppo per tutti – è tra sottomissione totale alla linea tedesca (la Grecia deve diventare competitiva come la Baviera) e l’uscita dalla moneta unica. Che, infatti, in tanti tra Berlino e Atene hanno ipotizzato nelle scorse settimane. Ma nessuno ha voluto correre il rischio politico di essere ricordato come il responsabile della prima rottura dell’euro.

Quanto a Bruxelles e dintorni, le elezioni anticipate e tutto quello che le ha precedute indeboliscono le istituzioni europee al di là di ogni previsione. La linea dura di Tsipras ha fatto perdere ogni pudore brussellese: un organismo informale come l’Eurogruppo (il coordinamento dei ministri delle finanze) si è spinto a ipotizzare la sospensione della Grecia dalla moneta unica; il Parlamento europeo che aveva sempre contestato addirittura la legalità della Troika è stato schierato dal suo presidente Martin Schulz contro Atene e a favore dei creditori, per mere ragioni di politiche interna tedesca (la Spd di Schulz non vuole lasciare ad Angela Merkel l’austerità, molto popolare). Ora Tsipras cerca di recuperare quel prezioso ruolo di neutralità dell’Europarlamento, chiedendo il suo coinvolgimento nel monitoraggio delle riforme dopo le elezioni anticipate di settembre, ma il danno è fatto. La Commissione di Jean Claude Juncker è evaporata: il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici non ha mai avuto voce in capitolo.

In questo vuoto istituzionale, si è inserita la Germania che si permette ora di imporre una miope egemonia che assomiglia a un disegno di conquista, altrettanto insostenibile di quelli che hanno portato a tragedie passate. Ancora una volta ha ragione Jurgen Habermas: il problema attuale dell’Europa è che è stata consegnata agli interessi nazionali, comanda solo il Consiglio europeo, dove vince il più forte, cioè la Germania.

Alle ultime elezioni europee, il Parlamento cercava di combattere l’astensione sottolineando “l’importanza di votare”. Ma quello che è successo in questo anno smentisce drasticamente quello slogan. Votare non serve più.

In Grecia, qualunque sia l’esito delle elezioni di settembre, il nuovo governo applicherà l’intesa appena votata con l’Europa. Perché la Grecia non può perdere gli 86 miliardi del fondo salva Stati, anche se chiaramente non risolveranno i suoi problemi. Che sia Tsipras il prossimo premier o chiunque altro, per i greci cambierà ben poco.

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