università 675
Si è sollevato un interessante dibattito a seguito dei post di Stefano Feltri (‘Il conto salato degli studi umanistici, ‘Università, studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri’, ‘Università, gli studi belli ma inutili e l’ascensore sociale bloccato’)  che riprendono un lavoro recente del CEPS sui rendimenti dell’istruzione universitaria in alcuni Paesi europei. Mi limito a fare qualche osservazione, dopo aver detto che condivido tutto quello che Stefano Feltri ha scritto nei suoi post.
Parto dai problemi dell’Italia. Cresciamo troppo poco e quindi non riusciamo a creare posti di lavoro a sufficienza per tutti, soprattutto per i giovani. Abbiamo tassi di disoccupazione molto alti, esageratamente alti per le fasce di età giovanili e questo è il problema più grave per il nostro Paese. Stiamo distruggendo le speranze di una generazione e le opportunità di sviluppo nuovo per il paese stesso.
Non facciamo innovazione a sufficienza. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono in rapporto al Pil circa la metà di quanto avviene negli altri paesi avanzati, sviluppiamo pochi brevetti. Nessuno dei prodotti di successo dell’economia digitale e dell’informazione è stato ideato e prodotto in Italia. Qual è l’ultimo prodotto nuovo inventato in Italia? Per nuovo intendo: qualcosa che soddisfi un bisogno nuovo (esempio lo smartphone) o un bisogno vecchio ma in modo nuovo (il treno ad alta velocità). Io direi che la Vespa (scooter) sia l’ultimo prodotto nuovo interamente italiano – 1947!! senza prodotti nuovi è difficile conquistare mercati, far crescere le imprese e dare lavoro a più persone.
Siamo rimasti specializzati in settori produttivi tradizionali nei quali i margini sono bassi e la concorrenza proveniente dai paesi emergenti è feroce.
Il processo in atto in gran parte dei paesi avanzati registra un aumento del peso dei settori legati all’economia digitale, un aumento dei servizi avanzati e una contrazione dei settori maturi e tradizionali. Noi siamo molto indietro.
L’OCSE e altri osservatori dicono inoltre che c’è un fenomeno crescente di disoccupazione tecnologica: i computer, la rete, le ICT in generale stanno rimpiazzando sempre più il lavoro umano e si sta inoltre creando una polarizzazione tra i lavoratori: da un lato vi sono coloro che in virtù dei loro skills sanno approfittare delle nuove tecnologie e dall’altro invece vi sono quelli sempre più marginalizzati, a rischio di disoccupazione e di povertà.
Ora detto tutto questo però la situazione sotto il profilo delle professioni e del lavoro è assai complessa.
Molti centri stimano che ci sarà una domanda crescente per laureati in materie tecnologiche e scientifiche i cosiddetti STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) in tutti i Paesi. Chi si laurea in queste discipline ha meno rischi di restare disoccupato e di essere rimpiazzato dalle macchine, se non altro perché può lavorare in tutti i settori, vista la natura trasversale e pervasiva delle ICT.
Ma la novità recente (si veda su questo l’interessante volume “The Second Machine Age. Work, Progress, and Prosperity in a Time of Brilliant Technologies” di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee del MIT di Boston) è che le macchine/computer sono sempre più intelligenti e sono sempre più capaci di rimpiazzare non solo i lavori routinari (cassieri nei supermercati o ai caselli autostradali ad esempio) ma anche attività complesse ed ad alto contenuto di conoscenza: si pensi all’uso di computer per la diagnostica medica, o all’uso di computer per la guida degli aerei. Fino a pochi anni fa sembrava impensabile immaginare che i computer potessero guidare un’autovettura ma oggi c’è la Googlecar, in grado di spostarsi nelle trafficatissime strade di Los Angeles senza fare incidenti e senza conducente umano.
La situazione insomma è molto complessa. In passato dicevamo: se studi avrai lavoro. Poi abbiamo detto se studi alcune cose sei sicuro che il tuo lavoro non sarà a rischio di automazione da parte dei computer/robot. Oggi questa affermazione va qualificata. Sono tantissimi i lavori che nei prossimi anni potranno vedere l’arrivo di computer intelligenti capaci di rimpiazzare l’uomo. La disoccupazione tecnologica è il vero spettro. I posti di lavoro creati dalle imprese che producono tecnologie digitali o information goods sono pochissimi rispetto ai posti di lavoro che vengono distrutti dall’automazione e dal progresso tecnologico. Google, Amazon, Apple etc. danno lavoro a pochissime persone se le confrontiamo con le giant corporation del passato nei settori oramai antichi come la siderurgia, o l’automobile.
Chi troverà lavoro? chi saprà combinare competenze specialistiche con creatività, innovazione, spirito imprenditoriale. Ci sono attività che richiedono ad esempio expertise estetico che i computer non hanno. Ci sono professioni che richiedono competenze legate al gusto che difficilmente le macchine hanno (per ora almeno), pensate ai cuochi.
Direi allora: chi studia materie scientifiche e tecniche ha più possibilità di non restare disoccupato. Il problema come dicono gli autori dello studio CEPS è che è molto più difficile studiare ingegneria o fisica che non storia dell’arte o sociologia, e questo in parte spiega perché abbiamo tanti iscritti nelle facoltà umanistiche e pochi iscritti in quelle tecniche e scientifiche. Ma uno dei punti è che nelle nostre facoltà umanistiche si è rimasti a una visione antica del mondo, non si insegnano tecniche di creatività, non si insegna analisi dei mercati, analisi dei dati. Sarebbe utile che i giovani nelle facoltà umanistiche fossero esposti anche a un po’ di contaminazione con le materie aziendali ed economiche ad esempio: come si scrive un business plan? Come si può creare una start up a Pompei che consenta a dei giovani letterati di lavorare con il turismo? Come si gestisce un museo? Come si possono usare le competenze umanistiche sul web? Come si fa impresa?
Non è certo pensabile che le schiere di laureati in campo umanistico vengano assunte dallo Stato vero? Certo uno può dire: studio quello che mi piace ma poi vado a fare il cameriere in una pizzeria. Giusto, condivido.
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